di Arianna Destito
Il ticchettio della sveglia sul comodino rimbomba nel silenzio della stanza. Ascolto il ritmo cadenzato delle lancette come fosse la più bella musica della mia vita.
Tic. Tic. Tic.
Non riesco a sentire altro.
Non posso e non voglio. Intorno a me tutto è fermo.
E pensare che c’è stato un tempo in cui odiavo il silenzio e la greve cappa di malinconia che porta con sé, come un vuoto da riempire. Viviamo di mancanze e neanche ce ne accorgiamo, illudendoci di dare un nome e un senso a ogni cosa. Tristezza. Ansia. Paura. Panico. Malinconia. Euforia. Felicità. È tutto catalogato e in ordine nei cassetti della memoria, come in un album di vecchie fotografie in bianco e nero. Ogni tanto qualcuna si stacca e si perde, come un ricordo un po' sbiadito, lasciando uno spazio bianco nella pagina della tua vita.
Da giovane mi piaceva farmi fotografare e modestamente ero proprio una bella donna. Ora non mi va più. A malapena tollero la foto della carta d’identità. E poi, devo per forza identificarmi? Anche ora che sono alla fine? Per chi? Non voglio possedere alcuna identità. Cancellatemi. La giostra sta compiendo gli ultimi giri e io voglio scendere.
E invece mi ritrovo qui, in una casa di riposo, in questa stanza dal sapore antico, sdraiata in un letto con le sponde, muta.
Tic. Tic. Tic.
Fino a qualche tempo fa avrei scaraventato quella sveglia conto il muro e riempito il silenzio con Radio Ga Ga di Freddie Mercury sparata a tutto volume.
Ora no. Nemmeno potrei farlo: non riesco ad arrivare al comodino.
Rumori improvvisi provengono dall’armadio di legno accanto alla finestra. Il silenzio acuisce i sensi. Ogni scricchiolio rimbomba e sembra una risposta immediata ai pensieri, quasi un messaggio in codice da cifrare. Il cassettone alla mia destra, ad esempio, esibisce misteriosi intrecci intarsiati nel legno ancora vivo che borbotta.
Qualcuno ha gridato nel corridoio fuori dalla stanza.
La verità è che detesto ogni evento, ogni luogo, ogni situazione che mi ricordi che respiro ancora.
Detesto il rumore, il chiacchiericcio, le parole inutili, le persone cortesi per professione e quelle scortesi per natura, le persone arroganti, supponenti, o coloro che gridano anche solo per dirti buongiorno.
Detesto perdere tempo e aspettare, fare la fila a uno sportello e ancora di più quando con aria saputella qualcuno fa notare: «Perché si lamenta? Non ha nulla da fare tutto il giorno».
«Già», rispondo. «E quel nulla voglio farlo al più presto, senza indugi, perché mi state rubando il tempo che ormai non ho più».
Non sopporto il fatto di aver bisogno degli altri anche per accendere la televisione. Non poter lavarmi, vestirmi e mangiare da sola e non muovermi neppure con la carrozzella perché nelle braccia mi manca la forza per spingermi. Non sopporto di partecipare alla tombola quando si fa animazione. Non sopporto neppure l’animazione. Che parola idiota. Cosa animi? E poi quella musica! Sempre la stessa in loop. I Ricchi e Poveri con Mamma Maria, Celentano con Azzurro e poi il liscio, quello proprio no. È straziante. Neanche da ragazza frequentavo le balere, figuriamoci ora! E le operatrici, insieme ai parenti, che accennano passi di danza nelle feste di compleanno mentre noi le osserviamo pieni di gratitudine. Quando riusciamo a vederle, ovvio. Cosa ci sia da festeggiare a questa età per me resta un mistero. Io il mio compleanno lo tengo ben nascosto. Divieto assoluto di festeggiamenti. Mica voglio fare la fine di quelle centenarie con il cappellino in testa e i palloncini e la torta che neanche riescono a masticare. Per carità. Che vadano al diavolo tutti quanti! Mica siamo un fenomeno da baraccone. A mala pena mi intrigano le parole crociate, e me ne sto li, isolata e silente come una mummia.
Ho il fuoco dentro. Della rabbia. Per questo taccio. Non parlo più con nessuno. Tutti ci provano a farmi parlare, io niente. Al limite grugnisco o borbotto qualche frase sconnessa, lo faccio di proposito, così pensano che soffro di qualche degenerazione cognitiva. Ma, sia chiaro, sono io che ho scelto di non parlare. E di non ascoltare nessuno. Da quando mi hanno chiusa qua dentro.
Fingo, ogni giorno. Al mattino mi mettono seduta sulla carrozzina e me ne sto con gli occhi chiusi per non vedere, e cerco di distrarmi per non sentire le idiozie che dicono gli altri, quelli come me. Per non parlare di coloro che ci lavorano. Siamo vecchi, non fessi. Certo, qualcuno è un po’, come dire, andato. Ripete sempre le stesse cose. Vive nel suo mondo. Ma, che ci crediate o no, possediamo una nostra personalità. Siamo nati prima di voi, tutto qui. Se non vogliamo camminare su quegli stupidi trabiccoli traballanti che chiamate girelli, sui quali ci appendete come se fossimo panni di bucato, beh, ci sarà un motivo. Se non riesco a tenere le ginocchia dritte è inutile che vi intestardiate a gridare «Stendi quelle gambe!», neanche foste il sergente maggiore Hartman di Full Metal Jacket. E poi mica sono sorda. Non sempre. A volte ci sento. E comunque, anche se lo fossi? Non è che se urlate le mie gambe vi ascoltano meglio, eh.
La verità è che noi vecchi non ne possiamo più. E soprattutto non ci fidiamo. Di nulla e di nessuno. Né del cibo che ci fate mangiare, né delle medicine che ci propinate a ore fisse. E mi riferisco anche a voi, dottori col camice bianco che vi date tante arie. Io sono nata a Genova nel 1917, alla fine della Prima guerra mondiale. Ho vissuto tutta la seconda, ho fatto la borsa nera, andavo a prendere le latte d’olio nel ponente ligure e le portavo a Torino. Salivo sui treni al volo. Ho rischiato di essere fucilata da un soldato italiano fascista. Ho avuto a che fare con i nazisti, i partigiani e in seguito con gli inglesi e gli americani. E con tutti ho sempre parlato con la schiena dritta e guardandoli negli occhi. Ora, secondo voi, devo subire l’onta di accettare gli ordini di qualche maestrina con la divisa da infermiera, da OSS o da fisioterapista? Voi non mi avrete e non avrete i miei ricordi.
Quindi io taccio.
Eppure. Se ho bisogno di aiuto devo chiederlo. Devo suonare il campanello. Detesto anche quello, perché non so mai chi arriverà e mi tocca far buon viso a cattivo gioco.
Maneggiare con cura. Dovrebbe esserci scritto così sopra il letto, o qualcosa del genere.
Arriva Maria, per fortuna, è un sollievo, qualcosa in lei mi tranquillizza.
È brava, ci sa fare, ammetto che è la mia OSS preferita e, strano a dirsi, mi sembra perfino di starle simpatica. Il che è assurdo visto che faccio di tutto per respingerla. Ma lei mi sorride sempre, lavora impeccabilmente e, soprattutto, sembra sincera.
Ci sono volti, gesti e parole che, nonostante tutto, ti sorprendono.
L’inatteso è dietro l’angolo.
Ma oggi c’è qualcosa che non va. Ha il volto scuro, cupo e un’espressione che non le avevo mai visto prima.
«Ha saputo? È crollato il ponte», dice con una voce catacombale.
«Quale ponte?», rispondo. Non ho mai sopportato le esagerazioni.
«Il ponte Morandi. Neanche sapevo che si chiamasse cosi. Per me era il ponte sul Polcevera».
«Mai sentito. E poi, si figuri se i ponti crollano. In cento anni non ne ho mai visto crollare uno. Anzi sì, l’unico che ricordo è il Ponte Reale, quello che hanno abbattuto per costruire la sopraelevata». Minimizzo. La realtà mi ha sempre spaventato, cerco di allontanarla come posso.
«Ma ha capito cosa le ho detto?», incalza Maria.
«Certo che ho capito». La questione deve essere davvero grave. Lo percepisco dalla sua reazione.
«Forse non ha capito lei, cara Maria. Ci vuole del coraggio sa...».
«Per fare che?».
«Attraversare un ponte è compiere un atto di fiducia. Mettersi nelle mani di qualcun altro».
«In che senso?».
«I ponti uniscono. Creano legami. Sui ponti transitano le nostre vite. Chi lo attraversa non pensa che sia per l’ultima volta. Non pensa che crolli. Mai. Al contrario, ci transita con lo slancio che serve per partire, arrivare, vivere».
«Ecco, signora Italia, è proprio questo il punto: la fiducia. Bisogna imparare a fidarsi».
Ora tira a fregarmi, penso, ma non glielo dico, perché Maria è una brava ragazza e ci rimarrebbe male.
«Dove vuole arrivare, Maria?».
«Non crede sia giunto il momento di avere un po’ di fiducia in me, in noi, in questa casa di riposo?».
«E se poi tutto crolla?».
«Ma non ha appena detto…».
«Ha ragione. Forse devo fare un piccolo sforzo, ma a una condizione».
«Quale?».
«Mi chiami Lia e non Italia».
«E perché?».
«Italia mi ha sempre chiamato una sola persona: l’ufficiale giudiziario».
redazione@themeltingpop.com
Un questione di fiducia fa parte della raccolta di racconti Il Ponte, un'antologia
a cura di Emilia Marasco e Nicolò De Mari (Il Canneto editore) che raccoglie più di 40 racconti di autori diversi per età, provenienza, stile, professione. Il ricavato delle vendite è devoluto a progetti di beneficenza per bambini e anziani.
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