(Piccole occasioni di gioia quotidiana)
di Elena Nieddu
Qualche anno fa, mi ritrovai a Tokyo con poche idee e uno zaino pesante.
Arrivavo da Hiroshima su un treno talmente veloce da impedire ai pensieri di adattarsi al paesaggio. Perciò, impiegai molto tempo, su e giù per le linee colorate della metropolitana, a trovare la Ryokan in cui ero attesa, in una strada qualunque nel quartiere di Ueno: credevo che non sarei mai riuscita a respirare in superficie, fuori da quei tentacoli di gallerie che non conoscevo e che sembravano infinite. La sensazione di oppressione e di smarrimento non mi abbandonò mai, in quei giorni, così come la coscienza di buttare via, in un’incertezza paralizzante, il mio poco tempo in una delle città più costose e ambite del mondo. Di solito estremamente lucida negli spostamenti, mi ritrovavo sotto i nodi delle sopraelevate in lunghe, oscure e faticose camminate, ad ascoltare il rombo delle macchine senza neppure vederle, oppure davanti ai palazzi luminescenti di Ginza, a spiare una commessa impiegata in un inchino a invisibili clienti. O, ancora, mi sedevo sull’erba dei prati, nei parchi, aspettando improbabili Cosplayer: interpretando la brutta copia di una turista distratta e superficiale.
Fu quasi per caso, o, meglio, non sapendo dove andare, che mi ritrovai a visitare la casa dello scultore Fumio Asakura, nel quartiere Yanaka, assieme ad altri curiosi, anche loro con gli occhi spenti come i miei. La casa era molto bella, con interni di legno scuro e caldo, piena di libri antichi e opere d’arte, ma il mio cuore era rigido, impenetrabile: la mente schizzava già al giorno dopo quando, nuovamente con una combinazione di treni rapidissimi, avrei dovuto raggiungere Osaka. In quella nebbia, strana come caligine, arrivai al giardino pensile.
In fondo, in un angolo, sovrano del suo spazio, c’era un albero di olivo. La presenza di quella creatura mi sembrò, sulle prime, del tutto naturale. Il tronco smilzo, i rami agili, il fogliame grigio e verde, le radici emergenti dalla terra, erano particolari di esseri che ero abituata a osservare, di solito mentre si stagliavano con armonioso contrasto sul blu del mare.
Mi ci vollero alcuni, lentissimi minuti, nuotati nel tempo come gelatina, per ricordarmi dove mi trovavo, per avvertire una reale sensazione di stupore e per sentire quello a cui non riuscivo a dare un nome: un’assenza fatale, la mancanza tra le dita di una terra avara e madre, che in quel momento si manifestava con un sentimento puro di sollievo, capace di trasformare quelle foglie vibranti in una cascata di monetine d’argento.
Qualche giorno fa ho rivisto l’olivo dello scultore Asakura su un tetto della città in cui vivo.
Anzi, l’ho visto su diversi terrazzi, in vasi piccoli e grandi, accanto alle rose e alle primule, alle lenzuola bianche ondeggianti al vento, alle arcate di ferro battuto dei gazebo, come una replica infinita di sé stesso. Camminando per le strade curve, aperte sul centro come una balconata elegante, mi sono venuti in mente quei giorni cupi e sprecati a Tokyo, interrotti dalla luce soffiata tra le foglie, divenute monete scintillanti. Ho pensato alla freschezza di quell’olivo mediterraneo che lanciava il suo profilo nel cielo del Giappone, alla ragazza con lo zaino pesante, distante dall’abitudine, smarrita nei suoi dubbi, che aveva trovato nell’albero qualcosa di unico: una patria interiore. Ma, per tornare a quella casa, aveva dovuto perdersi tra i colori artificiali di una metropolitana e sotto gli scappamenti di una sopraelevata, tra i riflessi dei palazzi eleganti, oceani lontano.
Elena Nieddu
Nata a Genova nel 1974, laureata in Scienze della Comunicazione all’Università degli Studi di Torino, ha conseguito il praticantato giornalistico all’Ifg “Carlo De Martino” di Milano. Nel 2019 è uscito il suo primo libro, “Senza pelle”, edito da Ensemble. Suoi racconti sono stati pubblicati da “Nuovi argomenti”, “La città”, “Letterate Magazine”. Per il quotidiano “Il Secolo XIX” si occupa di cultura, spettacoli e società.
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