CRONACHE DI UN ORDINARIO GIALLO DI PROVINCIA
PARTE PRIMA
di Chiara Ferraris e Claudio Di Tursi
«E ‘sta chì cus’a l’è?»
Norma parlava sempre in genovese con Marco, il giovane postino.
«A l’è in’a lettera che a venie dell’Inghiltera, ma a mi me pa’ in po’ stranna. A nu venie da in cittadin ingleise… a venie d’a sucietee de poste ingleisi. A Royal Mail!» disse il Marco che non aveva mai visto né consegnato una lettera del genere a Murta. Norma, allora, lo pregò di aprirla e di aiutarla a leggerla, perché lei, gli disse, ci voleva tutta che capisse l’italiano.
Marco non se lo fece ripetere due volte. All’interno, trovò un documento e altre due buste. Una era molto piccola e dava l’impressione di essere anche molto vecchia, l’altra, invece, era preaffrancata, e riportava il logo della Royal Mail a interrompere una spessa banda rossa che girava tutto attorno. Marco cercò di interpretare il contenuto del documento.
Il direttore dell’ufficio postale di Whitefield, una cittadina a nord di Manchester, si scusava a nome di tutta l’azienda che indegnamente rappresentava, poiché durante i lavori di ristrutturazione dell’ufficio postale, sotto una vecchia e pesantissima cassaforte spostata per essere dismessa, era stata trovata una lettera datata 15 giugno1941 inviata da un cittadino britannico a Renata Zamperini. La stessa lettera che ora era contenuta nella busta che, con imperdonabile ritardo, veniva consegnata all’indirizzo originario. Un tentativo di consegna, spiegava il direttore, che se non fosse andato a buon fine avrebbe previsto che il ricevente, se in nessun modo parente del destinatario originale, utilizzando la busta già affrancata, spedisse indietro la vecchia missiva.
I due si guardarono increduli: una lettera dal passato per la sorella di Norma.
Era l’inizio di una delle avventure più entusiasmanti che avesse mai coinvolto me e la Ferraris, ma forse anche la più dolorosa. Un pezzo di passato stava per riemergere dal buco in cui il caso lo aveva sepolto, e sebbene all’inizio sembrasse solo un puzzle da ricomporre, una sfida gentile, a un tratto sembrò volerci annientare, come se un’entità terribile volesse punirci per avere cercato di riportare alla luce una vicenda che doveva essere sepolta per sempre.
Il telefono squillò ripetutamente.
La Ferraris fece irruzione nell’ufficio, sbattendo la porta contro il muro. Sobbalzai sulla sedia girevole e fui costretto, così, ad abbassare i piedi che fino a dieci secondi prima tenevo sulla scrivania, nella posizione preferita per la lettura del giornale.
«Perché cazzo non rispondi?»
«Buongiorno anche a te, Ferraris. Vedo che sei sempre di ottimo umore».
«Pensa al tuo, di umore. Sono le dieci del mattino e sei qui a fare un cazzo. Neanche rispondi al telefono».
Sprofondai nuovamente nel giornale.
Erano stati anni difficili, gli ultimi due. Difficili e definitivi: la pandemia che aveva investito l’intero pianeta, il numero dei morti che cresceva quotidianamente, il lock-down, le città deserte, la lontananza forzata da tutti, anche dalla Ferraris. E poi le mascherine, i no mask, sì mask, no vax, sì vax, no seconda dose, sì alla terza, anni in cui il loro lavoro era stanare vecchietti in coda al panificio senza FFP2 o negazionisti che entravano in posta starnutendo a raffica e poi scappando a gambe levate. Basta casi, basta omicidi, basta nottate a fare congetture. E basta Ferraris: mai una parola di vicinanza, di solidarietà, mai una chiamata, neanche in quei tre mesi di isolamento forzato.
Avevo chiuso quella pratica: la Ferraris era un campo da gioco troppo difficile, almeno per me. Un campo da serie A, per intenderci, mentre io a malapena la sfangavo in una partitella tra le vecchie glorie della parrocchia.
«Di Tursi, allora?» fece la collega, indicando il telefono che aveva ripreso con il suo trillo continuo.
«Sono ammiratori» le spiegai.
«Cosa?»
«Nostri ammiratori che vogliono sapere come facciamo a risolvere i casi. Per lo più svitati, eh. Per cui non rispondo».
Da quando la situazione pandemica si era normalizzata, i quotidiani locali non sapevano più bene a cosa appigliarsi e un giornalista aveva da poco rispolverato le loro passate vicissitudini, fornendo un resoconto dettagliato delle loro sgangherate indagini che, tra una botta di fortuna e un romanzo letto al momento giusto, li aveva portati a risolvere ben tre casi: il killer seriale di scrittori mediocri, il sindaco e il farmacista. Eravamo tornati in auge e in paese non si faceva che parlare di noi.
La Ferraris si fece avanti con una delle sue camminate da western americano, ci mancava giusto la Colt da estrarre dalla fondina e una sigaretta mezza consumata all’angolo della bocca. Quanto era sexy, misericordia…
«Pronto!»
La guardai con disappunto. Non poteva lasciar perdere quel maledettissimo telefono?
Un lampo di sorpresa attraversò gli occhi di ghiaccio della poliziotta.
«Certo, certo. Arriviamo subito» commentò, riagganciando.
La fissai sgomento; aveva negli occhi quell’espressione delirante che ormai ero abituato a conoscere. Da lì a poco ci saremmo cacciati in un altro guaio.
«Vieni, pappamolla. Il questore ci aspetta».
«La faccenda è delicatissima».
Il preambolo del questore mi fece sobbalzare sulla sedia. Ci chiamavano dal nostro ufficietto di un comune sperduto della Valpolcevera per una faccenda delicatissima? Mi aggiustai gli occhiali appannati, come ogni volta che passavo repentinamente da un ambiente freddo a uno troppo caldo.
«Una lettera in ritardo di ottant’anni arriva a casa di una signora di Murta, Norma Zamperini. Una lettera da un signore inglese che, nel 1941, chiede alla sorella di Norma, Renata, come stia suo fratello James».
Il questore riassunse quanto sapeva: James Billington, pilota della RAF durante la Seconda Guerra Mondiale e considerato deceduto in battaglia nell’aprile del 1941, dato che il suo ricognitore non aveva mai fatto ritorno, aveva un fratello che, in quello stesso anno, a due mesi di distanza, aveva scritto a Renata per avere notizie del pilota che tutti reputavano disperso. Ma la lettera non era mai partita e poco dopo il fratello di James era morto. La lettera era stata recapitata quella mattina alla signora Norma Zamperini, poiché Renata, la sorella coinvolta, era morta già da diversi anni.
«Sembrerebbe una cazzatella da niente, ma della “lettera misteriosa” se ne stanno occupando tutti i tabloid inglesi. Stanno mettendo alla berlina un’istituzione come la Royal Mail, cosa che manda in acido la famiglia Reale, ultimamente già abbastanza provata» spiegò il questore lasciandosi sfuggire una punta di nervosismo.
Non riuscivo ancora a capire perché il questore ci avesse chiamato e la cosa, unita al timore reverenziale che incuteva la stanza in cui eravamo, piena di dipinti dell’‘800, calendari di tutte le forze armate e ancora trofei e targhe e gadget a testimoniare devozione e sudditanza assoluta verso il potere che la figura istituzionale del questore incarnava, mi inquietava. Mi si appannarono ancora di più gli occhiali. Prelevai un fazzoletto dalla tasca e cominciai ad asciugarmi il sudore.
«Sì, ma a noi… » intervenne la Ferraris, glaciale e ferma come il famoso iceberg del Titanic: «E comunque si tratta di ottant’anni fa. Pensate davvero che importi qualcosa a qualcuno, di questo James Rellington?»
«Billington, Ferraris. James Billington. Se lei mi avesse fatto finire le avrei detto della lunga telefonata dell’ambasciatore inglese che, nel pomeriggio di ieri, mi ha spiegato di come sia delicata la questione: da una parte, un aviatore inglese che viene dato per morto gloriosamente in battaglia – e decorato in quanto tale - e dall’altra la questione di dove sia realmente finito quest’uomo. Come mai sembrava sparito e invece pare che una signora dell’entroterra ne avesse notizie? Alcune idee me le sono fatte: poteva essere una spia, un disertore, per esempio. Qualunque essa sia, il Regno Unito vuole una risposta e pare se la aspetti proprio da noi. Anzi… proprio da me…», il questore fece una pausa, gli occhi persero mordente per un istante, come se un’ombra minacciosa lo avesse avvolto, poi riprese: «Fra poco la notizia arriverà anche alla cronaca locale; mi faranno a pezzi».
La voce del questore si fece meno pacata. «Ho bisogno di gente sveglia che sappia fare indagini in un paesino, gente che conosca il dialetto e certe dinamiche… che si muova con discrezione. I miei sembrerebbero elefanti ubriachi in una cristalleria. E giusto l’altro giorno mi è capitato tra le mani il “Va’ Polcevera” e indovinate chi c’era in prima pagina? Voi due! Mi sono ricordato di come vi eravate distinti in quelle indagini che coinvolgevano il vostro comune, per cui…», il questore si alzò in piedi, infilando le mani in tasca.
Noi lo imitammo subito.
«Ho già parlato col Sindaco di Sant’Olcese, fino alla fine delle indagini siete affidati al caso, risponderete direttamente a me. Dovete capire esattamente com’è andata, chi era esattamente James Billington, quando è morto, come e perché e cosa c’entra Renata Zamperini».
Sulla bocca della Ferraris comparve uno stolto sorrisetto che le parole del questore stroncarono immediatamente: «Nessun indugio: confido nella vostra bravura, ma…» e la voce a quel punto si fece baritonale, affossando completamente il sorriso della Ferraris, «…ma se non mi portate la soluzione prima che il casino che sta montando mi trascini nel baratro, giuro che vi porto all’inferno con me. Dalle stelle alle stalle. E, si sa, le stalle sono piene di merda».
Indovinai lo sguardo terrorizzato della Ferraris attraverso la nebbia delle lenti. Mi uscì fuori un ridicolo «Agli ordini, signor questore!», al quale la Ferraris incredibilmente annuì, ci irrigidimmo in un insensato saluto alla visiera senza calzare il berretto e dopo i convenevoli di rito lasciammo la stanza.
In macchina non dicemmo niente per un pezzo. Io cercavo di non pensare all’ordine ricevuto concentrandomi sulla guida in città, stando attento ad azzeccare i sensi unici che qualche testa d’uovo del Comune di Genova si divertiva a cambiare ogni primo mercoledì del mese, mentre la Ferraris guardava dal finestrino con gli occhi aperti e la bocca socchiusa, l’espressione alienata che ormai conoscevo bene e che le veniva quando stava escogitando qualcosa.
«Ne hai ancora di quelle patatine ammuffite in casa?»
«Certo» risposi. «Ho anche la Coca Cola sgasata».
Il fatto che la Ferraris volesse stare con me per parlare del caso mi inorgogliva parecchio. A casa concordammo che la prima cosa da fare sarebbe stata parlare con Norma Zamperini per sapere più cose possibili sulla sorella, Renata.
Ci ritrovammo, così, il mattino successivo, a casa di Norma Zamperini, classe 1929, seduti al suo tavolo con due tazzine fumanti di caffè davanti, una torta fatta in casa e una montagna di fotografie in bianco e nero che tappezzavano la tovaglia in pizzo.
Norma, nonostante l’età, era molto lucida. Ci snocciolò ogni data, da quella di nascita della sorella Renata, più vecchia di lei di sei anni, a quella del funerale del parroco di quei tempi e via dicendo. Era un archivio vivente. Citò anche il coinvolgimento della sorella con i partigiani in seguito all’8 settembre. Degli anni passati distante dalla sorella, in quanto in assenza del padre, lei e la madre si erano trasferite in città e vi erano rimaste fino alla Liberazione. Ma di James Billington, dell’aviazione britannica e quant’altro non ne sapeva niente. Per cui, le cose erano due: o lei non ne era al corrente o il fatto non sussisteva. La lettera era stata spedita per sbaglio o forse James, prima di sparire, aveva raccontato al fratello una bugia qualsiasi per dirottarlo e allora la pista che potesse essere davvero una spia, un disertore, rimaneva la più accreditata.
Il caso si stava sgonfiando come una torta pasqualina venuta male e io e la Ferraris non riuscivamo neanche a guardarci negli occhi, fuori dalla porta di casa Zamperini.
«Cosa gli raccontiamo al questore?» ebbi il coraggio di borbottare, mentre ci avvicinavamo alla Panda.
«Che ha ragione lui» ammise la Ferraris, guardandosi intorno.
«Meno male, allora, che ha voluto noi due. Per confermare la sua ipotesi. Bella figura di…»
«Merda, certo! Bella figura di merda. Però, Di Tursi, noi non siamo due mammolette qualsiasi. Se dobbiamo dare ragione a lui, allora troveremo ogni prova, ogni singolo dettaglio che avvalli la sua teoria. Interrogheremo ogni anima di questo paese!» annunciò, spaziando con lo sguardo nella piazzetta deserta di Murta, incantevole paesino che sovrastava Bolzaneto e il Polcevera, ma che, insomma, non era propriamente una metropoli affollata. La campana della chiesa rintoccò le dieci, e il suono rimase a languire tra i ciottoli della piazzetta.
Cosa potevo dire alla mia collega, se non che sarei andato con lei fino in fondo, ovunque questo fondo si fosse spinto, persino in un baratro?
«Allora andiamo, Ferraris. Interroghiamo tutto il paese».
Quarantacinque minuti dopo avevamo fatto il giro di tutto il circondario.
Quasi nessuno aveva un’età vagamente avvicinabile a quella della Zamperini e quei pochi non avevano una mente altrettanto lucida. Le poche informazioni che riuscimmo a racimolare furono un copia-incolla di quanto già sapevamo: Renata aveva dato il suo contributo alla Resistenza partigiana cucendo per i partigiani, “ah, era la sarta più brava del paese”, ma di inglesi a Murta, neanche l’ombra.
Terminati i nostri interrogatori e preso appuntamento telefonico con il prete per tornare per una spulciatina ai registri parrocchiali, decidemmo che la nostra gita poteva dichiararsi conclusa.
Stavamo per partire, quando un’altra automobile si affiancò alla nostra. Una signora abbigliata con indumenti da lavoro scese dal veicolo, accompagnata da seghe, forbici da giardiniere, accette, secchi e sacchetti.
La guardammo interrogativi, mentre lei continuava a sorridere e a scaricare dal bagagliaio utensili di ogni genere. La Ferraris mi dedicò un’occhiata decisa. Qualche domandina in più non ci avrebbe fatto male.
«Signora, siamo della polizia, possiamo chiederle cosa sta facendo?» iniziai, mostrando il distintivo e tentando un fallimentare balzo fuori dall’auto.
«Oh, oh, buongiorno, buongiorno» prese a rispondere concitatamente la signora che, me ne accorsi solo in quell’istante, sopra alla tuta da lavoro portava un adorabile cappello in paglia adornato di rose finte.
«Sono la volontaria del cimitero».
«La volontaria del…?» chiese la Ferraris.
«Venite con me» propose lei, affibbiandoci due secchi e una sega a testa. La fermezza della donna ci impedì di rifiutare il generoso invito.
Seguendo i suoi passi, ci trovammo a scendere una mattonata che, dal borgo di Murta, si insinuava nei boschi. Il passaggio era reso particolarmente insidioso dal tappeto multicolore di foglie che ricopriva la mattonata, rendendola sicura come una lastra di ghiaccio. La signora, che si presentò come Simonetta, ci raccontò del progetto di restauro del cimitero di Murta, piccolo cimitero monumentale di campagna inghiottito dai rovi che lei, insieme a un gruppo di volontari, stava riportando alla luce.
La domanda che spontaneamente uscì dalle bocche mia e della Ferraris, quasi all’unisono, mentre cercavamo di rimanere in piedi sulla mattonata, fu: «E perché?»
«E perché tutto è iniziato con un progetto, il progetto di ripristino della strada che collega questo borgo, dove sono nata, a quello di Trasta, dove ora abito, più a valle. È una passeggiata bellissima, che volevamo rendere agibile e interessante, installando un roseto, una specie di via delle rose». La voce della donna si affievolì: «Poi con l’alluvione di qualche anno fa è crollato il ponte che unisce i due borghi. Ci siamo trovate spaesate, come se il nostro impegno fosse scivolato via insieme alle pietre del ponte, ingoiato dall’acqua. Era un ponte storico, sapete?»
Simonetta, dopo un minuto di silenzio, riprese a raccontare con energia della scoperta del cimitero dimenticato, che ormai nessuno visitava più da anni poiché completamente inagibile, lasciato a sé stesso e alla natura, che tanto sa celare. Da lì, l’idea di recuperare il cimitero, installare il roseto, in attesa che il ponte venisse ricostruito, fare visite guidate, eventi, raccogliere fondi, insomma smuovere le acque.
«In un cimitero?» domandai io, arrancando sulla strada che adesso, finita la mattonata, cominciava a salire.
«Sapeste quante cose incredibili può nascondere, un cimitero» concluse Simonetta, posando gli attrezzi a terra. Eravamo arrivati: davanti a noi un cancello arrugginito. Dalle sbarre, s’intravedeva una fitta vegetazione, oltre uno spiazzo costellato di massi grigi.
Simonetta ci mostrò una chiave, che inserì nel lucchetto. In qualche secondo, eravamo dentro.
La Ferraris ed io ci aggirammo per lo spiazzo. I massi grigi che avevamo intravisto dal cancello erano frammenti di lapidi. Me ne accorsi accucciandomi e rigirandone uno tra le mani. Un numero, un numero interrotto …43 compariva sull’angolo sbeccato della pietra. Afferrai un’altra pietra e ricomposi il puzzle: 12/1/1943. L’ultimo pezzo restituì agli occhi commossi miei e della Ferraris l’immagine in bianco e nero di un bambino che non poteva avere più di un anno. Ci guardava con iridi bianche, unico colore che potesse avvicinarsi a quello reale del bimbo. Sorrideva, anzi, forse rideva proprio. Forse si era divertito davanti a quel marchingegno assurdo. E poi, così come un istante prima rideva in braccio alla sua mamma, un istante dopo era morto. Chissà per cosa, poi. All’epoca, poteva essere per qualsiasi sciocchezza, influenza, dissenteria…
«Una delle nostre prime scoperte» spiegò Simonetta, avvicinandosi a noi due. «Non abbiamo trovato altro, per ora, della sua lapide. Non sappiamo come si chiami, noi lo abbiamo soprannominato Giovannino».
La Ferraris era muta, persa in quelle iridi bianche che continuavano a fissarla.
«Lo so cosa pensa, agente» continuò Simonetta: «Anche noi abbiamo avuto la stessa reazione, quando lo abbiamo visto. Abbiamo deciso che è giusto riportare dignità ai nostri morti. È giusto che possano essere visitati, riconosciuti. È merito di Giovannino se abbiamo iniziato questa pazza impresa».
Simonetta mi diede in mano un falcetto: «Se volete aiutarmi…»
La Ferraris ed io ci guardammo un attimo negli occhi, poi ci togliemmo la giacca.
«Non so proprio come faremo a spiegare al questore che abbiamo trascorso la mattinata a togliere rovi da un cimitero di provincia» biascicai a mezza voce, mentre con la nostra Panda scendevamo curva dopo curva verso il Polcevera, per poi risalire nel nostro comune. La Ferraris non si divertiva a derapare a ogni tornante, e la cosa mi preoccupava parecchio.
La vedevo spenta, amareggiata.
«Vieni da me ad analizzare i fatti davanti al nostro consueto aperitivo?» tentai, un po’ per scuoterla, un po’ – devo ammetterlo – per approfittare di quell’attimo di tregua che si era creato.
Lei scrollò la testa, priva di energia.
«Oppure vengo io da te…» insistetti.
«E dacci un taglio, Di Tursi» esplose lei, scalando la marcia e facendo ruggire il motore della Panda, «ho bevuto una Coca a casa tua due volte, non è che ci siamo giurati fedeltà eterna!»
Seppur dispiaciuto per l’ennesimo tentativo fallito di passare del tempo con lei, ero sollevato dalla sua reazione che mi restituiva la Ferraris di sempre. Scorbutica e spigolosa.
«E che cazzo!» aggiunse.
E con tante zeta nel vocabolario. Sorrisi tra me e me.
«Cosa ti prende?» le chiesi.
«Rimugino. Sarà un caso che abbiamo trovato la foto di un bambino morto poco tempo dopo la data della nostra lettera?»
«E dai! Quanti bambini saranno morti in quell’anno?»
«Senza nome? Un bambino senza nome?» continuò lei, svoltando con l’auto per costeggiare il torrente.
«La lapide era incompleta. Mancano dei pezzi, quando il restauro del cimitero sarà finito ne sapremo di più» conclusi io.
«Non possiamo aspettare così tanto».
«E il questore?»
La Ferraris sorrise, spinse sull’acceleratore fino a portare la Panda su di giri, esattamente come sembrava lei.
«Potremmo dirgli che stiamo seguendo una pista. Non è poi così lontano dalla verità. Male che vada, la pista avvallerà la sua teoria».
Mi guardò per un istante, poi tornò a fissare la strada con lo sguardo di falco.
«E intanto tu smanetta come sai fare su internet e cerca qualcosa di più su questo James Fallington».
«Billington!» la corressi, per l’ennesima volta.
«Mai stata portata per le lingue, io!»
FINE PRIMA PARTE
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