L'AMICO AMERICANO.
STORIE D'OLTREOCEANO
di Emanuele Pettener
Nei primi anni del Novecento, a New York, Joseph Sakai, giovane studente giapponese discendente da una nobile stirpe di samurai, lesse delle opportunità agricole floridiane – i giornali sollecitavano ad approfittare di queste nuove terre, rese finalmente raggiungibili grazie al progetto ferroviario di Henry Flagler (1885) – e decise di fondare una colonia di agricoltori giapponesi in quella che attualmente è l’area nord di Boca Raton, consapevole delle grandi abilità tecniche dei suoi compatrioti. Venne accolto con tutti gli onori dal governatore della Florida, William Jennings, ottenne il benestare di Washington al suo progetto e mille acri dalla Florida East Coast Railway e da altri investitori.
Joseph, entusiasta, salpò per il Giappone e reclutò i primi coloni, orticultori esperti: appena arrivati, cominciarono a bonificare la terra, costruire le abitazioni, ripostigli e quel che serviva. Battezzarono la colonia “Yamato”, antico nome del Giappone: venne inaugurata il 2 gennaio 1905.
(immagini tratte dal quotidiano "Orlando Sentinel" e da "Discover Nikkei", giornale di cultura giapponese dedicato ai migranti giapponesi e ai loro discendenti https://www.discovernikkei.org/en/ )
I coloni giapponesi godevano di ottima fama presso la scarna popolazione locale: erano grandi professionisti, ma anche persone gentili, educate, cortesi, tanto da essere spesso invitati a produrre performance della propria cultura, canzoni, musica, esibizioni di judo. La colonia si specializzò nella coltivazione dell’ananas e inizialmente con eccellenti profitti. Il primo duro colpo venne da un’epidemia di tifo, dalla quale la colonia seppe sollevarsi; ma nulla poté contro la ruggine, che distrusse gran parte del raccolto di ananas nel 1908, e la competizione di Cuba, che diede la mazzata finale alla coltivazione di ananas in South Florida. Fu la fine del sogno americano di un manipolo di agricoltori giapponesi: uno a uno, con le loro famiglie e le pive nel sacco, se ne andarono altrove o tornarono in madrepatria – con un’eccezione: George Sukeji Morikami.
Era un bel ragazzo di 24 anni, senza un soldo, neppure per tornare in Giappone. Doveva farcela lì. E per farcela doveva innanzitutto imparare l’inglese: s’iscrisse alla scuola elementare, giovanotto nipponico fra bambini americani, mantenendosi coi prodotti del suo orto. Era un duro: con un sacco da cento chili di fertilizzante sulla spalla, si faceva diverse miglia ogni giorno per fecondare il suolo sabbioso della sua proprietà. Dopo un anno di lezioni d’inglese e immane fatica sui campi, riuscì a guadagnare i primi mille dollari grazie ai pomodori. Da lì, acquistando terre e facendo investimenti, non si fermò più: nel giro di tre-quattro anni la sua fortuna ammontava a duecentocinquantamila dollari. Visse a lungo, ricchissimo ma senza ostentazione (verso la fine della sua vita alloggiava in una casa mobile nelle terre che son diventate il parco/museo che reca il suo nome, a ovest di Delray Beach), senza mai spezzare il legame con la madre patria, morendo a 89 anni nel 1976, dopo aver donato duecento acri (ottanta ettari) alla contea di Palm Beach.
Qui è stato realizzato il Morikami Museum, un parco di pura bellezza, un imprevedibile squarcio di Giappone nel cuore subtropicale della Florida. I giardini sono disegnati secondo stili nipponici che vanno dall’ottavo al ventesimo secolo; camminando lungo sentieri di ghiaia, all’ombra dei fiori di ciliegio, vi troverete un’autentica sala da tè, un’autentica pagoda, fontane ricche di grossi pesci bianchi e arancioni, stagni gremiti di tartarughe, un museo d’arte giapponese, una collezione stupefacente di bonsai, festival culturali con artisti del Sol Levante. È un luogo che ristora l’anima, non solo per lo splendore della natura e l’immersione mistica nel silenzio; semplicemente, si respirano il coraggio e l’immaginazione di cui son capaci gli esseri umani: per qualche ora, ci si riconcilia con l’umanità. E poi è bello, di tanto di tanto, sentirsi un po’ giapponesi.
(foto n.1 tratta da Florida Historical Society [https://myfloridahistory.org/]; n. 2 dal sito del parco morikami.org; n. 3 da Twitter del Morikami Museum; n. 4 per gentile concessione di Marcella Munson; n. 5 di Matteo Gumier; n.6 di Calli Abisognio; n. 7/8/9 di Domenica Santomaggio Diraviam; n. 10/11 di Nicola Zordan).
Emanuele Pettener, nato a Mestre, insegna Lingua e Letteratura italiana alla Florida Atlantic University (Boca Raton, Florida), dove nel 2004 ha conseguito un Ph.D in Comparative Studies. Ha scritto numerosi articoli e racconti apparsi su riviste statunitensi e italiane. È autore dei romanzi È sabato mi hai lasciato e sono bellissimo (Corbo, 2009), Proust per bagnanti (Meligrana, 2013), Arancio (Meligrana, 2014), e Floridiana (Arkadia, 2021). Ha pubblicato il saggio Nel nome del padre del figlio e dell’umorismo. I romanzi di John Fante (Cesati, 2010) e, in inglese, la raccolta di brevi racconti A Season in Florida (Bordighera Press, 2014, traduzione di Thomas de Angelis).
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