di Cristina Castagnola
"Trovare l’arte (e metterla da parte)" è un progetto che si è insinuato nella mia testa un qualunque giorno di gennaio. È arrivato nel momento giusto e lì è rimasto, finché non mi sono decisa a metterlo ‘su carta’. È il mio inno all’arte in ogni sua forma e dimensione.
Un colpo di fulmine simile a quello che mi è successo con la passione per la fotografia. Un pomeriggio qualunque, con una fotocamera in mano, e tutti i tasselli sono andati al posto giusto. Veniva facile inquadrare un fiore, una persona o un paesaggio e, semplicemente, scattare. È arrivata dopo la volontà di trasmettere qualcosa di più importante a chi guardava il risultato finale, me stessa inclusa. È cresciuta la passione di fotografare amici, familiari, sconosciuti, per fermare le loro emozioni e poterle rivivere ancora e ancora.
Non ho alcuna pretesa di essere una grande fotografa, anche perché (almeno per ora) non ho avuto molto tempo da dedicarle. Tuttavia, è una forma d’arte che ho sempre reputato universale. Certo, ognuno può vederci mille significati diversi (più uno), ma di fronte a una bella fotografia il risultato è sempre e solo uno: meraviglia.
Meraviglia è esattamente lo stato d’animo che ho provato quel lontano giorno del 2016 a Genova quando, al Palazzo Ducale, ho potuto ammirare la mostra sul capolavoro Genesi del fotografo Sebastião Salgado.
Salgado è un artista brasiliano nato verso la fine della Seconda Guerra Mondiale, nel 1944 per la precisione. La sua profonda sensibilità e l’interesse verso il mondo lo portarono a dedicarsi a documentare le condizioni umane e climatiche nei cinque continenti.
Questi due concetti usati per descriverlo, mi fanno avvicinare emotivamente alla sua persona; la curiosità è appunto la base della mia personalità. È per questo che ho deciso di dedicargli il primo articolo di questa nuova rubrica: la curiosità è universale e sono certa che sarà ciò che ci salverà tutti. Ora, però, torniamo al nostro fotografo.
Salgado, nella sua carriera, sono quasi certa che abbia sperimentato il cosiddetto ‘Mal d’Africa’, quella sensazione di pesante nostalgia che prende una persona che ha visitato l’Africa e desidera ardentemente ritornarci. Potrebbe essere un’intuizione azzardata la mia, tuttavia l’amore per quei luoghi si riflette nel suo lavoro, che cerca di immortalare ogni angolo di quella terra: dagli animali, alle persone, alle loro tradizioni, alle sofferenze che devono vivere ogni giorno.
Genesi nacque, potremmo dire, da un senso di sconforto dell’artista. Stanco di tutto il male visto nel mondo, decise di abbandonare per un po’ la fotografia e ritornare nel suo Brasile. Da lì, cominciò una grande opera di riforestazione da cui poi scaturì proprio questo lavoro: è la combinazione di voglia di riscatto e di rinascita, di trovare una qualche maniera per salvare il Pianeta. L’unica cosa che importava era la natura e i suoi territori segreti e inesplorati, privi (per fortuna) di qualunque contatto con il genere umano. È un progetto iniziato nel 2003 e durato dieci anni, che ci trasporta lungo il suo viaggio sulla Terra grazie alle oltre 200 straordinarie immagini in total black & white, la maniera più rapida che un fotografo ha per far concentrare il pubblico sui dettagli che vuole realmente mostrare e sottolineare. È una ‘gita’ piuttosto estesa che attraversa l’Amazzonia, l’Indonesia, l’Antartide, l’America, la Siberia e tanto altro ancora.
Tuttavia, Genesi non racconta solo la parte selvaggia di quelle terre; troviamo spesso anche volti di persone e animali che cercano di portare avanti la loro vita in quelle lande desolate.
Se penso a quel capolavoro di sensibilità, l’immagine di riferimento nella mia testa è la fotografia del leopardo immerso nella vegetazione vicino a un corso d’acqua, che guarda dritto nell’obiettivo. Ciò che scaturisce, a mio avviso, è un monito per il fotografo e per tutti gli altri uomini: stai nel tuo, perché questa non potrai mai chiamarla casa. Io saprò sempre dove trovarti.
Deve essere stato un grande onore poter stare così vicino alla morte e quasi arrivare ad accarezzarla, una sensazione che il fotografo ha cercato di riportarci con questa sua ‘arte’.
L’uomo, forse, potrebbe davvero arrivare a convivere con la natura; ma se non si impara a rispettarla, questa avrà sempre e comunque il sopravvento su qualunque marchingegno useremo per cercare di domarla. Che sia un grande predatore, un terremoto o una pandemia globale a rimetterci al nostro posto poco importa, saremo sempre i numeri due. E questo, probabilmente, Salgado l’ha compreso forte e chiaro.
Il suo compito sta ora nel portare il messaggio al resto dei suoi simili. Chissà che non riesca davvero a cambiare lo stile di vita se non di tutti, almeno di molti. Sicuramente, quei paesaggi incontaminati ci ricordano che siamo solo di passaggio su questo pianeta, che continuerà a girare anche senza la nostra presenza.
FONTI: https://www.mostrasalgado.it
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