di Cristina Castagnola
Ci sono certi periodi nella storia che non possono essere ricordati come momenti di grandezza umana. Principalmente ci rientrano i periodi di guerra, ma troviamo anche la schiavitù, le forti lotte per i diritti delle donne o della comunità LGBTQ+, oppure, per restare in tempi “moderni”, i grandi cambiamenti climatici degli ultimi mesi o la fame nel mondo. Oltre ovviamente alle violenze sessuali e di genere che, comunque, sono all’ordine del giorno.
Eppure, ci sono certe figure che riescono a trovare in queste catastrofi delle particolari forme di arte. Non quella delle riviste, costruita appositamente, ma la bellezza delle cose quotidiane, che ti fa ricordare che qualcosa di comune si può comunque ancora trovare. Uno di questi“visionari” è stato il fotografo ungherese Endre Friedmann, alias Robert Capa, il prototipo del fotografo di guerra.
Decisi di dedicare un articolo a questo artista nel momento in cui, per caso, trovai su una rivista la pubblicità di una sua mostra allestita ad Aosta da maggio a settembre 2023. Così, approfittando di alcuni giorni di vacanza in quelle zone, portai il mio fidanzato a visitarla. L’elemento chiave è che lui non aveva mai visto alcuna sua fotografia (oppure ignorava il fatto che ne fosse lui l’autore).
La mostra ‘Robert Capa. L’opera, L’oeuvre 1932-1954’ a cura di Gabriel Bauret, presso il Centro Saint-Bénin, presenta oltre 300 fotografie di guerra e non (si è occupato infatti anche di cinema) che hanno permesso di plasmare la leggenda di Capa. Le opere sono state selezionate dagli archivi dell’Agenzia Magnum Photos e ripercorrono due correnti: i cosiddetti ‘tempi deboli’, quelli che raccontano la sensibilità di quest’uomo verso le vittime dei conflitti, che si contrappongono, invece, ai ‘tempi forti’, le vere e proprie azioni.
La caratteristica principale che, secondo me, è il fulcro di Capa è l’unione di ritratti di soldati e di civili, in modo che nessuno venisse lasciato in secondo piano. Viaggiò praticamente in tutto il mondo e le sue immagini sono diventate icone della fotografia novecentesca. Si pensi all’immagine del miliziano spagnolo morente oppure alle famosissime foto della seconda Guerra Mondiale degli americani in Sicilia e dello sbarco in Normandia.
Girovagando per le nove sezioni della mostra, i volti delle persone e le brevi descrizioni del periodo storico che stavo guardando si susseguivano davanti ai miei occhi; tuttavia, alcune mi hanno veramente rapita. Non sono quelle più dure, ma quelle che, in qualche modo,mi hanno trasmesso speranza. In particolare, la foto di un gruppo di donne e una suora che accolgono le truppe alleate ad Alençon, in Francia, scattata il 12 agosto 1944, e quella del giugno dello stesso anno, scattata a Omaha Beach, in Normandia, dove si vede un sacerdote cattolico celebrare la messa per inaugurare un cimitero americano, utilizzando il cofano di una Jeep come altare.
Sono due immagini diverse e per qualche senso magari contrapposte, ma hanno anche un concetto unificante: la pace, per i vivi e per i morti. L’ultima citata, tra l’altro, è una delle undici fotografe che si salvarono tra quelle realizzate da Capa durante il D-Day, che verranno pubblicate sulla rivista ‘Life’di Henry Luce. Purtroppo, le altre vennero bruciate da un assistente di laboratorio in camera oscura per la fretta di renderle “vive”.
Non sono tecnicamente perfette, ma anzi sono sfocate e con ben poca luce, ma questi dettagli rendono giustizia alla tensione e all’adrenalina di quei momenti frenetici e fondamentali. Capa ha voluto viverli a pieno, diventando così parte della storia. Non è un’emozione che tutti possiamo provare: ha deciso di prendere posizione, come molti prima e dopo di lui e, a modo suo, ha contribuito a raccontare il coraggio delle persone.
Da quella visita organizzata per caso, ne è uscita una breve ma profonda discussione tra me e il mio fidanzato. Non che servissero tante parole per descrivere ciò che avevamo visto: da un lato, una persona che si è ritrovata davanti uno “sconosciuto” che gli ha mostrato cosa volesse dire essere un ragazzo della nostra età che si ritrova, per sbaglio, in un qualcosa più grande di lui. Dall’altra, invece, ho ritrovato un maestro e un “amico”, che mi ha nuovamente spiegato come non serva sempre la perfezione di luci, tempistiche e ISO per fare una buona fotografia. Non serve neanche trovarsi al momento giusto nel posto giusto. Bisogna solo capire cosa vogliamo dire e come vogliamo dirlo; chi vuole ascoltare, poi, troverà il modo di vederci.
A mio avviso, la sua sensibilità sta proprio nel mostrare i gesti più semplici, dal giocare a scacchi al riposo, perché nel quotidiano ci sentiamo più vulnerabili e vicini ed è, penso, questo che volesse trasmettere alle generazioni future: l’unione in qualcosa di piccolo, ma così grande che accomuna tutto il mondo. Questo è ciò che ha trasmesso a me.
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