di Cristina Castagnola
Faccio sport da quanto riesco a ricordare. È sempre stata una costante nella mia vita e penso che non riuscirei a farne a meno. La fatica fisica si trasforma in un balsamo per un cervello offuscato, come si suol dire. Per me è assolutamente vero.
I legami che si instaurano con i propri compagni di squadra, gli allenatori, persino i genitori degli altri ragazzi, è qualcosa che si può capire solo una volta entrati in questo circolo. E quando ci si trova in difficoltà, si diventa tuttofare: se qualcuno ha bisogno di acqua, se si ha bisogno di una parola di incoraggiamento, se si hanno crampi, se si rompe all’improvviso un attrezzo. Il branco è forte finché resta unito, primo comandamento per far parte di qualunque team.
Ho un grande rispetto e amore verso lo sport, in generale. Se mi trovassi a parlare con un atleta appassionato, potrei facilmente perdere la cognizione del tempo ad ascoltarlo. E devo ammettere che questa sensazione ho avuto il piacere di provarla non molto tempo fa, guardando il recentissimo documentario di Prime Video “Genoa, comunque e ovunque”. È questa l’arte di cui vorrei parlare oggi.
Partiamo dalle informazioni di servizio: si tratta di un documentario di circa un’ora e mezza, prodotto da Emotion Network e Dude Originals, con la regia di Francesco Raganato e in collaborazione con il Genoa Cricket and Football Club.
Però, perché parlo di arte con un documentario sul calcio, sport da secoli più seguito e probabilmente controverso? Perché non è un semplice resoconto dei risultati di questo club storico. Qui, viene spiegato per filo e per segno che cosa significa essere genoano, cosa vuol dire avere un legame così forte con la propria città, una passione che unisce persone di provenienze diverse a prescindere dai risultati. È uno spettacolo per gli occhi, bisogna essere oggettivi.
Chiunque bazzichi nel mondo calcistico, sa che il Genoa ha una storia di tutto rispetto. Venne fondato da un gruppo di inglesi come società per praticare diversi sport di squadra e individuali ed è, infatti, il club italiano più longevo nonché uno dei più blasonati, con 9 scudetti vinti tra il 1898 e il 1924 (la stella per il decimo, è uno dei tanti piccoli sogni nel cassetto di un qualunque genoano).
A tratti commovente, a tratti spiritoso, ci sono tutti gli ingredienti per far passare il giusto messaggio. Perché il calcio può veramente essere una un’opera d’arte, se solo uno si ricorda che, prima di tutto, è un gioco in cui ci si deve divertire.
Passiamo, dunque, al vero motivo per cui ho deciso di dedicargli un intero articolo.
La tifoseria genoana è una frenesia che non ha età: viaggia dai bambini, ai ragazzi, agli adulti, ai nonni. C’è l’unione di famiglie e amici, vicini e lontani, sugli spalti o davanti al televisore. È un filo lunghissimo che parte dal cuore e ti lega a quei colori in modo quasi materno. Può addirittura arrivare fin lassù, da dove ci guardano le persone a noi care con cui ci siamo dovuti dividere.
È probabile che sia difficile spiegarlo a chi lo vede solamente da fuori. Io stessa facevo fatica a capire, nonostante sia anche andata in prima persona allo stadio. Eppure, in neanche 90 minuti di fronte a uno schermo, ho aperto gli occhi.
È un tifo scatenato dalla prima all’ultima partita, dalla Primavera alla Serie A, da far invidia al mondo. Entrare su quel campo in erba e vedersi circondati da un mare rosso-blu, è una sensazione per la quale stentano a trovare le giuste parole persino gli stessi calciatori.
L’amore, si sa, porta a fare follie: realizzare le coreografie e coordinare migliaia di spettatori, cucire a mano i bandieroni, trovarsi con i propri amici prima della partita e arrivare al Ferraris strombazzando per i vicoli e scaldando la voce con i cori ancor prima del fischio d’inizio. Già solo nel descriverle queste sensazioni, mi vengono i brividi. Fa tutto parte di una cultura centenaria, che viene orgogliosamente tramandata di padre in figlio, di madre in figlia.
Nella mia esperienza da fuorisede, ho avuto la fortuna (e anche un po’ sfortuna per i miei timpani) di ritrovarmi a casa proprio un genoano. È una delle persone più empatiche e genuine che abbia mai conosciuto, finché non entra in ballo il Genoa. Da lì, è guerra. E lo prendevo in giro per questi suoi sbalzi d’umore così repentini a causa di undici persone che corrono dietro a una palla. Mi ha portato a vederli, ne ho vissuto l’atmosfera, ho cantato e mi sono divertita, eppure mancava sempre un tassello per farmi veramente sentire ciò che prova lui per questo Grifone. Quel tassello l’ha sbloccato il documentario.
Perciò, non partite prevenuti se non siete amanti del calcio o se tifate un’altra squadra. Prendetevi del tempo per fare un’immersione genovese a metà tra il mare e le montagne e provate a far arrivare quelle parole anche al cuore. Potrebbe uscirne fuori qualcosa di interessante.
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