di Redazione The Meltin Pop
“Inizio con il pensarmi un individuo che immagina sé stesso mentre pensa; ha trentatré anni, incede tra i frammenti di un giorno imploso, sa gestire una tragedia alla volta.” (Genesi)
“Tra le cose e gli altri” di Ivan Ruccione esce oggi in libreria per la collana SideKar di Arkadia Edizioni e si presenta a noi come una raccolta di polaroid dell’anima. Mi spiego meglio.
Definire questo piccolo volume una raccolta di racconti può essere riduttivo e rischia di non centrare in pieno il senso del lavoro narrativo compiuto dall’autore. Qui non ci sono vicende che si dipanano in spazi temporali prolungati, con personaggi che hanno ruoli definiti e definibili, dove ogni cosa ha un nome preciso ed è pertanto circoscritta in una realtà geometrica, tridimensionale. Tutto è colto nell’istante stesso in cui avviene: un gesto, una parola, una sensazione. Ed è il punto esatto in cui l'autore si pone, "tra le cose e gli altri", in uno spazio di sè spesso ignorato, volutamente inabitato e non frequentato.
“Non credo di riuscire a spiegarti che in me non ci sono azioni, ma pensieri vaghi, ipotesi di gesti. […] Sapessi dare un nome alle cose, a quello che succede, sarei già a buon punto.” (Nomenclatura)
Le storie che Ruccione racconta sono brevi, a volte brevissime, poche righe in cui si condensa un momento, in cui si rivela un istante e corteggiano la poesia molto da vicino, senza però assumerne completamente le sembianze. Una terra di confine, insomma, dove l’autore sembra trovarsi particolarmente a suo agio. Un esperimento per sollevare il coperchio e tentare di immergere le mani nelle microscopiche, immense sofferenze che accompagnano il nostro vivere, in quello che lui stesso chiama “dolore navigabile”. Una zattera sul fiume che trascina i giorni e non sai dove porta.
Dunque quelli che per praticità chiamiamo racconti sono dei ritagli, dei frammenti (i titoli stessi dati ad alcuni racconti – SMAGLIATURE, GROVIGLI, DETRITI, RIFLESSI - sono un indizio). Sono degli istanti in cui Ruccione abbatte le pareti del quotidiano e lascia che il vissuto si esponga senza protezione ad un flusso di correnti. Queste correnti a volte denudano i fatti dalle nebbie delle nostre quotidiane giustificazioni, dalle sicurezze che avvolgiamo nel cellophane e conserviamo nel frigo delle rimozioni, dalle mistificazioni consolatorie con cui ricopriamo il nostro non sapere; sono le stesse correnti che altre volte rimescolano le sensazioni, le traslano da uno all’altro, le confondono.
“[…] ho la sensazione che ogni tentativo di progresso non sia altro che il perfezionamento di passate disfatte.” (Ho tutto in testa mo non riesco a dirlo)
Il linguaggio segue l’andamento di queste correnti; a tratti, asciutto, quasi affilato bisturi d’autopsia sui resti dei giorni vissuti; a tratti, poetico, malinconico, struggente con un uso della seconda persona singolare come destinatario, quasi a farne lettere o confessioni, la tentazione di ricomporre la frattura, che subito rientra, macchiata da un’amarezza lucida e stanca.
“Potessimo improvvisare qualcosa che ci tocchi di nuovo, ma ormai sappiamo già tutto, sarebbe mentire. […] Con un passo potrei avvicinarmi alle tue labbra, però siamo cemento fresco. Un passo, un’orma troppo profonda perché bastino un po’ di pioggia e vento per cancellarla.” (Le ultime cose)
L’autore parla di passi compiuti nell’opacità vorace della città o in una campagna incolore, di viaggi in treno o in auto, di padri e di madri, simili a soli sbiaditi allo sguardo. Lo fa sezionando ogni gesto, chiudendolo tra due punti, un aratro che traccia solchi.
Non ci sono risposte alle nostre affollate solitudini, ci muoviamo in deserti sproporzionati alla nostra capacità di percorrerli, dove oggetti e relazioni sembrano fuori dalla portata della nostra mano, irraggiungibili. Figli e genitori, coppie che viaggiano parallele e distanti, amicizie che si sfaldano come carta sotto la pioggia. Spesso i percorsi appaiono circolari, l’incomunicabilità ci lascia perennemente in bocca il sapore del fallimento. Che sia il tentativo di cercare un senso compiuto il vero errore?
“Oltre il vetro riappare la stazione. Credevo di essere partito, invece era il treno accanto.” (Scambi)
“Fuori è qualcosa che non capisco. Le cose accadono ancora, ma è come guardare da un buco nel muro.” (Il nuotatore)
Viviamo una vita di piccole morti quotidiane, “sciagure invisibili, non spargono sangue”. Una vita che in fondo ci accomuna alle stelle, come loro bruciamo lentamente, giorno dopo giorno, senza rumore.
Ivan Ruccione (1986) è nato a Vigevano. Alcuni suoi racconti sono apparsi su Nazione Indiana, Grafemi, Altri Animali, Poetarum Silva, Pastrengo e Cattedrale.
Nel 2017 è uscito il romanzo A fuoco vivo (Miraggi edizioni). Nel 2019 è uscita la raccolta di racconti Troppo tardi per tutto (Augh Edizioni), con prefazione di Helena Janeczek. Nel 2021 esce per Arkadia Edizioni Tra le cose e gli altri. Gestisce il blog letterario Mirino.
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