di Bruno Morchio
Non saprei dire se può definirsi autobiografia romanzata un racconto in cui l’autore attinge alla propria recente (e tragica) esperienza di vita, traendone spunto per scavare nel proprio dolore e rievocare una lunga storia condivisa, segnata da comuni ideali politici e intense emozioni private, affiancandovi una storia d’invenzione, un’indagine sul passato che mette in campo alcune grandi discriminanti e ferite che quella storia hanno profondamente segnato.
È una domanda che può allargarsi a molti autori e molti romanzi, ma che nel caso de La combattente ha una rilevanza affatto specifica.
È la storia di Angelita, giornalista d’assalto che nel corso della sua prima inchiesta, un’esplorazione nei luoghi della follia, i manicomi dell’epoca precedente la legge 180, incontra il grande amore della vita, col quale genera un figlio e condivide un entusiasmante percorso di lotta dalla parte dei perdenti.
Dopo la morte del marito che, a prezzo d’una indicibile sofferenza, ma anche di una ferrea determinazione, ha accompagnato alla fine attraverso il calvario di una lunga e dolorosa malattia, sprofonda nel buco nero del lutto, la cui elaborazione impatta su un evento imprevisto: a seguito di un incidente domestico, in un’intercapedine scopre alcuni documenti e oggetti che rivelano una tranche fondamentale della vita del compagno che lei ignorava e che la sconvolgono. Il trauma è talmente violento che condurrà la protagonista (che ovviamente è anche la voce narrante) a dubitare delle proprie percezioni e della propria integrità mentale (tout se tient, quello che agli albori della carriera è stato indagato con tanta passione diventa carne viva, esperienza vissuta).
Nella narrazione la ricerca della verità nascosta prende il sopravvento, fino all’epilogo, la soluzione dell’indagine, che ricomporrà l’equilibrio psichico, restituirà agli affetti la loro giusta collocazione nell’esistenza e aprirà una nuova pagina di vita.
Questo breve romanzo conferma in pieno quello che, fra molte altre cose, il genere noir o polar rappresenta nel panorama letterario: una metafora psicoanalitica, un rimescolamento delle carte tra passato, presente e futuro. Infatti, la ricerca nel presente trasforma l’immagine del passato.
Lo scavo archeologico restituisce versioni inedite di quello che è stato e queste, a loro volta, determinano una trasformazione del nostro sentire verso gli oggetti e le relazioni che hanno segnato e conformato la nostra vita. Ma, in definitiva, questa revisione cognitiva ed emotiva finisce per determinare un cambiamento di quello che siamo e diventeremo nel futuro.
Il romanzo risulta di piacevole lettura, anche perché è scritto con il mestiere che ben conosciamo nell’autrice, della quale ricordiamo Matrioska (2001), Gli scheletri di via Duomo (2008) e il suggestivo affresco storico di Alcazar. Ultimo spettacolo (2013), oltre alla ormai celebre biografia dello scrittore marsigliese Jean-Claude Izzo (2010, 2015).
Il lettore resta incollato alla pagina, come si conviene a un giallo che si rispetti, grazie al dispositivo narrativo dell’indagine, anche se qui non ci sono assassini – se non sul palcoscenico della grande storia – e il mistero da sciogliere attiene alla dimensione della memoria, al groviglio dei sentimenti e al senso dell’esistenza.
E, a proposito di Jean-Claude Izzo e di interrogativi esistenziali, ancora una volta Marsiglia (dove l’autrice vive e lavora) torna prepotente sulla scena, sorta di luogo mitico che non tradisce le suggestioni letterarie che la rendono così attrattiva, porto di approdo del Mediterraneo, casa dei profughi del mondo, e costituisce la finestra sul futuro che chiude il romanzo.
L’ultimo tratto di sole sta annegando nel mare. È arrivato il momento di andarmene. Ho messo il quaderno nello zaino e lentamente scendo verso il porticciolo di Les Goudes. Un pescatore sta mettendo a secco la barca. Quando è mistral può accadere di tutto.
Guardo ancora il mare. È la prima volta, dopo tanto tempo, che provo la sensazione di una libertà nuova.
Sono una superstite, è vero. Ma non una naufraga. E porto con me un’unica certezza. Se è vero che la felicità è una cosa semplice, l’infelicità appartiene alle storie.
Come il lettore esperto avrà notato, non è solo la citazione, è anche la condivisione di uno stile di scrittura e di una filosofia di vita: la pratica letteraria come viatico per la liberazione.
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