di Bruno Morchio
Editore: Echos Edizioni
Collana: Latitudini
Anno edizione: 2020
Pagine: 94
Con questo breve romanzo (o racconto lungo?), scritto in prima persona, ricorrendo a una lingua basica, elementare, coerente con la voce narrante che appartiene a un giovane meridionale col diploma di scuola media, Elisabetta Violani ci regala una sorta di autobiografia immaginaria, ma alquanto realistica, della vita del poliziotto. Niente a che spartire con un romanzo crime, poliziesco, giallo o affini, ma una semplice e cruda autobiografia.
Un romanzo dove non si fanno nomi: anonimo resta il soggetto narrante, così come la donna che diventerà sua moglie, la città di mare dove viene trasferito e i suoi compagni, designati con i più variegati appellativi, quali Scoiattolo, Lepre, Pelato e Capellone.
Il giovane protagonista lascia la famiglia al Sud per trasferirsi in una città dell’Italia del nord, dove si arruola in polizia. Dopo il corso di formazione, indossa la divisa e inizia la carriera, prima come piantone, poi nel reparto celere, quindi assegnato alle volanti, all’antidroga, alle forze speciali, poi istruttore al poligono di tiro e infine responsabile dei bagni marini della polizia di stato con il grado di sovrintendente.
Un’intera vita lavorativa che attraversa i mutamenti intervenuti nelle forze dell’ordine e nella società, attraverso gli scioperi e le lotte studentesche, la smilitarizzazione del corpo, la progressiva presa di coscienza delle contraddizioni di un ruolo non facile e molto diverso dalle rappresentazioni che spesso ne dà la letteratura di genere.
Una parabola di vita che si rivelerà tutt’altro che esaltante, dove il bisogno di “credere in qualcosa” viene spesso deluso da una realtà che contraddice i principi affermati a parole, al punto che il Nostro si troverà a rischiare di cadere nell’alcolismo. Il solo lavoro che sembra soddisfarlo è quello delle volanti, che risulta un effettivo servizio reso al cittadino, dove il pericolo è ricompensato dalla appagante convinzione di fare qualcosa di utile per la comunità. Le pantere, i soli animali dotati di “tre coglioni”, scherzano tra loro gli “sbirri”, almeno fino a quando la carenza di personale non ha ridotto a due i poliziotti in turno su ciascuna vettura.
I dialoghi sono stringati ed essenziali, fedeli al registro realistico del testo, e nello svolgimento della narrazione ci aiutano a entrare nell’atmosfera e nel vissuto dei protagonisti.
Il racconto è lineare e segue passo passo le vicissitudini del protagonista, che fino a un certo punto vive in caserma e, dopo il matrimonio, si trasferirà in un appartamento in affitto con la moglie che presto gli darà un figlio, e manterrà sempre vivo il rapporto con i propri genitori lontani, la cui voce si esprime in modo colorito in un dialetto che mima il siciliano. Gli affetti più intimi, il cameratismo, alcuni episodi salienti dell’attività come piantone, celerino e poliziotto di strada, le riflessioni sul senso del proprio lavoro implementano una narrazione a tratti ironica, vivacizzata da episodi che danno conto anche della “normalità” di un mestiere per gran parte sostanziato dalla capacità di entrare in relazione con le persone che si è chiamati a “proteggere”.
Notevole e da rilevare è la prospettiva straniante adottata nella prima parte, quando il giovane terun si ritrova al cospetto degli operai in lotta, sente gli studenti cantare Bella ciao, comincia a fare i conti con una dimensione che gli è sconosciuta, quella politica, e si domanda quasi spaventato se il servizio non lo porti talvolta a trovarsi “dalla parte sbagliata”.
L'assidua fedeltà al punto di vista dello “sbirro”, mi ha riportato alla mente le parole di Pasolini, che, dopo gli scontri di Valle Giulia negli anni Settanta, nel conflitto tra studenti e poliziotti rilevava come questi ultimi fossero espressione di un proletariato negletto e misconosciuto. Anche Elisabetta Violani sembra vederla come l’intellettuale ucciso a Ostia nel 1975.
Un libro, insomma, che ha il merito di sfatare falsi miti e di ricondurre la vita del poliziotto a una cornice realistica, quotidiana, senza negare le contraddizioni insite in un’attività che nell’esercizio della coercizione, della forza e talvolta della violenza pone il soggetto in continua tensione con la propria coscienza.
Elisabetta Violani genovese di nascita, è diplomata in lingue e laureata in Scienze Biologiche. Dopo un Dottorato di Ricerca nel campo delle Neuroscienze, lavora a lungo come ricercatrice in Università. Nel 2016 pubblica Scrivere per non morire. Memorie tragicomiche di un'ex ricercatrice - Giovanelli Edizioni, col quale vince il premio “In Punta di Penna” al VII Premio Letterario Internazionale Città di Sarzana 2019. Nel 2018 vengono pubblicati Cronache dal Quartiere Galleggiante e Racconti per fuori di testa. Nel 2019 scrive Il sole bacia chi vuole - Giovanelli Edizioni e Storie magiche per ragazzi in gamba - Tomolo-Edigiò Edizioni. Il suo racconto inedito "Meccano" è stato pubblicato sul periodico “Il Nuovo Monviso” in occasione del crollo del ponte Morandi di Genova. Il racconto inedito "Europa" risulta tra i finalisti del Premio La Quara 2019, e viene inserito nell'antologia “Europa” di Infinito Edizioni. Nel 2019 e 2020 partecipa all'antologia “Natale a Genova” edito da Neos Edizioni. Solo uno Sbirro (Echos Edizioni, 2020) è la sua ultima opera.
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