di Antonella Grandicelli
Uccidimi. Sul parabrezza, in controluce. La pioggia non lo lava, non lo scioglie.
La pioggia è fuori, un diluvio grezzo e pesante, che l’ha bagnata nelle ossa, l’ha fatta tremare. Ora è seduta in macchina e il rumore dell’acqua è sordo, come quello di una valanga.
Uccidimi. E’ scritto dentro, per questo l’acqua non lo lava via, è scritto dentro, quindi qualcuno è entrato, si è seduto sul sedile e lo ha scritto.
Alba ha i capelli bagnati che le gocciolano addosso. E’ senza ombrello, come sempre, è uscita dal lavoro e ha raggiunto correndo la sua vecchia auto parcheggiata nel grande spazio fuori dal supermercato dove lavora. Sono le nove e mezza, ha avuto l’ultimo turno, è stanca morta e ha dovuto fare il piazzale di corsa cercando di schivare le gocce dure come chiodi di ferro che ti trapassano. Ora, finalmente dentro la macchina, la sua espressione è attonita, ma non spaventata, perché il freddo l’ha accerchiata quand’era fuori e se trema, è per quello.
Guarda la scritta. Si volta d’istinto a osservare nel buio indefinito del sedile dietro, dove l’ombra è spessa. Accende la luce sopra lo specchietto retrovisore, d’improvviso l’oscurità si fora, implode su sé stessa in un attimo, si sgonfia come un palloncino. L’auto è vuota.
Dio grazie, pensa Alba e respira. Sui giornali si leggono tante cose, in un secondo la mente te le ricorda tutte. Con un dito si avvicina alla scritta e la sfiora. La lettera d si sbava appena, riprova allora più decisa e la lettera si allunga, perde la sua forma, diventa uno sbaffo indistinto, una macchia rossa sul vetro. Ora si legge Ucciimi, una parola vuota, senza senso e ad Alba fa meno paura.
Sfrega tra loro le dita che l’hanno toccata, sono appiccicose, sicuramente è rossetto. Guarda fuori e non vede nessuno, il piazzale è deserto, la sera è già tarda e lei è troppo stanca, troppo bagnata per pensare a qualcosa di diverso da un merdoso scherzo di qualche collega. Infila le chiavi e mette in moto e si porta la scritta così mutilata fino a casa sua, contorta dal riflesso acquoso delle luci. Stupida e inutile.
E’ mattino, Alba si sveglia, fa colazione, ha dormito pesante, un po’ per la stanchezza e un po’ per tramortire quel filo di ansia che la sera prima, per qualche attimo, le aveva legato le caviglie. È intontita, ha mal di testa e deve tornare a lavorare perché una sua collega si è ammalata e deve sostituirla. Bene, pensa, così chiederò chi è quel cretino che mi ha imbrattato il parabrezza. Si fa una doccia, si veste, prende le chiavi e esce.
Il cartoncino scivola per terra, con un fruscio leggero. Era attaccato alla pomolo della porta, dal di fuori, e lei non lo ha visto e nel richiuderla è scivolato via. Alba lo raccoglie. E’ uno di quei cartellini che si appendono fuori dalle camere d’albergo per avvertire che la stanza è occupata. Cioè ha la stessa forma, ma in realtà è solo un pezzo di cartoncino bianco ritagliato con una sorta di maniglia per essere appeso. Sopra, in corsivo, scritto col pennarello rosso, Uccidimi.
Alba resta qualche istante ferma, l’aria intorno a lei resta ferma, il raggio di luce che entra dalla finestra del ballatoio è congelato come in un fotogramma. Poi guarda le scale, ascolta il silenzio usuale di un venerdì mattina: l’aspirapolvere roco della signora al piano di sopra, le note di una radio accesa o di una tv che arrivano da qualche parte, auto che passano in strada. Lo scherzo sta diventando pesante, non mi diverto, pensa, mentre storce la bocca perché un fiotto di disagio le è salito dallo stomaco. Infila il cartoncino nella borsa e dà le spalle alla porta. Sulle scale incrocia il figlio della signora Blasi, che sta due piani sopra di lei. Sta salendo a trovare la madre. Un buongiorno distratto, lui risponde a malapena, non la guarda nemmeno negli occhi. Alba sa che, non appena sarà sfilata a fianco a lui, si girerà a guardarla, le punterà gli occhi addosso, squadrandola, anche se non le ha mai rivolto la parola. Vecchio schifoso, pensa.
Al lavoro nessuno sa niente. Il suo collega Maurizio, un po’ più vecchio di lei; Marina, che ha un marito e tre figli; Osvaldo, che è una sorta di capo reparto nel settore della pescheria dove Alba è ormai da tre mesi.
Alba è laureata in psicopedagogia, ha un master in psicologia dell’infanzia, una specializzazione da logopedista e lavora da più di un anno in un ipermercato dentro a un grosso centro commerciale. Vive da sola, ha un affitto sulla schiena e una fame perenne, deve pur mangiare, si dice. Lavora su due turni da sei ore, la paga è rachitica e ora l’hanno anche sbattuta nel reparto del pesce, dove c’è puzza, umido e non ci vuole stare nessuno. Ad Alba va bene così, in fondo i colori del pesce le ricordano il mare, le onde, il ghiaccio a volte assomiglia alla spuma e tutto sotto le vivide luci dei neon appare iridescente, quasi vivo.
La mattina passa velocemente, Marina è chiacchierona, ma fa compagnia con quelle sue storie buffe di bambini e pannolini; Maurizio ha un umorismo che ad Alba fa venire i nervi, come la sua svastica tatuata sul bicipite, e cerca sempre di corromperla a fumare per vendicarsi del fatto che lei non se lo vuol scopare, ma in fondo è un ragazzo come tanti; Osvaldo è di poche parole, sta dietro, prepara il pesce, controlla le bolle di scarico, segna in rosso sulla lavagna gli ordinativi. Prova a chiedere se qualcuno di loro le ha fatto uno scherzo, imbrattandole il parabrezza dell’auto. Racconta della scritta, del rossetto, del fatto che era buio e che pioveva. Marina rimane allibita e muta per qualche istante, si vede che la cosa le pare strana. Maurizio ride come un imbecille e le risponde che a suon di tenersela stretta avrà solleticato le fantasie erotiche di qualcuno. Osvaldo non fa commenti. Nessuno dei tre comunque sa niente e non ha davvero idea di chi può averle fatto quello scherzo. Del cartoncino Alba non ha parlato, non sa bene perché, forse si è sentita un po’ ridicola, ha avuto paura che sembrasse che volesse attirare l’attenzione su di sé.
La giornata va avanti, anche il doppio turno per sostituire Manuela, che ha l’influenza ed è sotto mutua da due giorni. Il pomeriggio del venerdì è sempre un bagno di sangue, soprattutto dopo le cinque, arrivano tutti per fare la grande spesa, ma, per contenere i costi, il personale è lo stesso degli altri giorni e comunque ridotto rispetto al mattino. Marina e Maurizio alle tre se ne vanno, rimangono solo lei e Osvaldo, che sta nel retro a preparare il pesce pronto a darle una mano a servire quando la gente si affolla troppo.
L’odore del pesce, il freddo del ghiaccio, il continuo flusso di persone ti stordiscono e ti fanno arrivare alla chiusura che neanche te ne rendi conto. Le nove arrivano, finalmente. C’è ancora da dare una mano ad Osvaldo a ritirare il pesce dal bancone e metterlo nelle celle e poi la giornata si può chiudere. Alba prende le cassette di polistirolo e aggira il bancone.
Uccidimi.
La scritta è imprecisa, graffiata e rosacea sulla pelle bianco argentea di un piccolo tonnetto. Alba la osserva e sente come un sibilo alle orecchie.
Osvaldo nota che si è fermata improvvisamente, la guarda perplesso, la raggiunge e fissa il tonnetto con la scritta sopra. È slabbrata e si legge male, ma è Uccidimi, ancora una volta.
Alba è pronta a giurare che un minuto prima non c’era. Osvaldo si accorge che è un po’ scossa, quindi le toglie la cassetta dalle mani e la fa sedere sul retro. Deve essere qualcuno che lavora qui, per forza, hanno già chiuso tutte le porte. Osvaldo scuote la testa, non è convinto. In fondo, può essere davvero così sicura di aver guardato il pesce nell’ultima ora? No, Alba non è sicura, dalle otto i clienti si sono diradati, lei ha cominciato a lavare i lavelli d’acciaio e i grandi taglieri che stanno dietro al bancone, ha fatto poco caso a chi si avvicinava. Chiamiamo la guardia giurata, le dice Osvaldo, non si sa mai, sicuramente è qualcuno che ti sta facendo uno scherzo idiota, ma è meglio non minimizzare. Alba non vuole, le sembra troppo casino, per poi che cosa dire? Qualcuno ha scritto Uccidimi su un pesce? A dirlo, fa ridere persino lei. Lasciamo stare, è il modo migliore per non dargliela vinta. E poi oggi è di turno Valerio, quello tarchiato, che sa sempre di sudore e che cerca di attaccare discorso ogni volta che la vede. Non sa se è meglio il rischio di un maniaco o la certezza di un bavoso. Osvaldo è perplesso, ma non insiste. Però alla macchina ti accompagno io. Alba sorride e le vengono le lacrime, è la tensione, pensa. Lo ringrazia, ma non può certo accompagnarla dappertutto nei giorni a venire, se la caverà, deve farlo da sola. Così esce e le mani le tremano appena mentre cerca le chiavi della macchina nel parcheggio silenzioso. Non c’è nessuno, mette in moto la macchina e torna a casa.
Il sabato mattina Alba può dormire perché ha il turno del pomeriggio. Alle otto e mezza suonano alla porta. Alba pensa, non può essere urgente, riproveranno e affonda la testa sotto al cuscino. Risuonano, una volta, due volte. Urgente non sarà, ma forse è importante se insistono così. Si alza, gli occhi le stanno ancora appiccicati, si infila una felpa sopra il pigiama e apre. La signora Ada, quella della porta a fianco, pensionata, ipocondriaca, cuoca di formidabili polpettoni. L’ultima qualità è ciò che la rende tollerabile. Si scusa tanto, le dispiace averla svegliata, ma è già da ieri che è passato il postino per lasciarle una lettera e, dal momento che non era in casa, si è permessa di ritirarla pensando che potesse essere importante. Alba la prende in mano, è una busta anonima, senza intestazione, c’è solo il suo indirizzo. Perché il postino non l’ha semplicemente lasciata nella sua cassetta? Ada le sorride sorniona, non era mica il solito postino, era uno nuovo, si vedeva che era inesperto. Le ha suonato e le ha chiesto se poteva lasciare la lettera e lei non ha avuto il cuore di rifiutare. Alba ora è sveglia del tutto, spalanca gli occhi e Ada interrompe il suo chiacchiericcio, capisce che non la sta ascoltando. Alba la ringrazia e chiude la porta.
La busta è liscia, non ha profumo, sopra c’è il suo nome, il suo indirizzo, tutto scritto con la penna rossa. Va in cucina, appoggia la busta sul tavolo, si versa un bicchiere d’acqua, beve e si siede.
Uccidimi, non c’è scritto altro sul grande foglio. E’ scritto in rosso, sul bordo, in alto a destra. La scrittura è sempre la stessa, un corsivo banale, scolastico.
Alba sospira, ora basta, questo gioco non mi piace. Chi ti dice che sia un gioco? La paura comincia a impastarle la bocca, sente un gusto amaro tra i denti. Infila il foglio nella busta e lo mette nella borsa insieme al cartoncino della mattina di ieri. Andare alla polizia? Avranno un milione di denunce di donne come lei, tanto non possono fare niente. Non la prenderanno sul serio, lo sa, le diranno che faranno delle indagini e di chiudersi bene in casa. In fondo, le indagini le può fare meglio lei.
Suona alla porta di Ada, che le chiede se sta bene e se ha ricevuto per caso brutte notizie. Alba sa di essere pallida ma non le importa della curiosità di Ada, non ora. Chi era l’uomo che ha portato la busta? Era alto, basso, magro, giovane o vecchio, com’era vestito, che voce aveva? Ada è perplessa, ma dà comunque tutte le risposte. Sembrava un ragazzo giovane, insomma sui trenta, forse anche trentacinque, alto normale, abbastanza magro, tenuto conto che aveva uno di quei giubbotti imbottiti che ti aggiungono almeno dieci chili, aveva gli occhiali da sole e un berretto di lana scuro calcato sulla testa, così capelli non ne ha visto, anche se aveva la faccia glabra, da calvo, la voce invece non se la ricorda proprio, ansimava perché aveva fatto le scale, quando lei gli ha aperto, le ha messo la busta in mano, le ha detto che era per la signorina Alba e se n’è andato.
Alba ha ringraziato Ada e la porta si è richiusa. La descrizione di almeno un miliardo di uomini sulla faccia della terra, pensa Alba. Ma non sono un miliardo, è uno, uno solo ed è evidente che ha preso di mira lei e la vuole spaventare. Cosa faccio, si dice, mi preoccupo o lo ignoro? Scende in strada, la sua auto è parcheggiata poco oltre il portone lungo il marciapiede. E’ chiusa, sul parabrezza interno si nota ancora leggermente l’alone di grasso che ha lasciato il rossetto, ma è vuota ed esattamente come l’ha lasciata la sera prima.
Alba entra in un bar, si siede e si fa portare un caffè. Nel bar, solo due uomini e il barista. Li guarda, li osserva mentre fumano, sfogliano il giornale, si scambiano battute. Così non ha senso. Non posso pensare di guardare ogni persona che incrocio, di sospettare di chiunque, gli sconosciuti sono troppi. E poi, perché deve per forza essere uno sconosciuto? Qualcuno sta cercando di metterle paura, di terrorizzarla, per averne un tornaconto, per puro piacere, per sadismo, perché è una carogna? La polizia le chiederebbe subito se ha un fidanzato, se lo ha avuto, se hanno rotto e per colpa di chi. Ma Alba non ha un fidanzato, né ne ha avuti negli ultimi due anni. Il ragazzo che ha avuto alcuni anni fa è ora felicemente sposato con una sua ex amica e Alba sa che il suo volto ha abbandonato completamente i pensieri di lui. Beve il caffè e poi chiama il numero dell’unica vera amica che ha, l’unica che possa fregiarsi di tale nome. Chiara le dice che l’aspetta, di andare da lei.
Il sabato pomeriggio è un altro turno bestiale. Alba arriva alle tre meno un quarto e incontra Marina negli spogliatoi. La collega chiede come va, distrattamente, è sfuggente, ha già la testa fuori, nei mille casini di casa. Alba dice tutto bene, mente. Ma Marina non se ne accorge perché non le interessa e la domanda l’ha buttata lì, senza pensarci troppo. Alba sa che non le sta troppo simpatica, con la sua laurea, i master, e chi più ne ha più ne metta, mentre Marina a stento ha finito le superiori. E poi non le va giù che Maurizio le stia così addosso. Ci aveva fatto un pensierino lei su Maurizio, perché tra pappe e pannolini in fondo quel tatuaggio sul bicipite le catturava la fantasia e un piccolo diversivo le avrebbe fatto proprio bene. Marina esce e Alba apre l’armadietto per prendere una cappa pulita. La cappa bianca è lì, appesa alla gruccia. Sulla schiena, in corsivo, Uccidimi. Scritto col pennarello rosso, la grafia curata.
Alba ora comincia ad essere inquieta. No, è più che inquieta, è quasi arrabbiata. Ma che stronzata è questa? Cosa vogliono da lei?
Osvaldo entra in quel momento, la guarda in faccia, ha già capito. E’ successo di nuovo? Alba gli mostra la cappa. Lui la osserva, la prende in mano, sfiora la scritta. Hai paura, le chiede. Alba non lo sa se ha paura, forse è più seccata, la irrita che qualcuno voglia insinuargliela sotto pelle, la paura, voglia trasformargliela in un bolo indigesto, in un boccone avvelenato. Osvaldo esce e torna dopo pochi minuti con la guardia giurata. Per fortuna non è quello perennemente sudato, è un uomo già in là con gli anni, con la pancia e l’aria bonaria. Osvaldo gli spiega la faccenda della macchina, del pesce e ora della cappa. Del cartellino e della lettera non sa niente, ovviamente. La guardia osserva la cappa, chiede ad Alba se ha visto qualcuno intorno al suo armadietto, ma Alba non ha visto nessuno. L’uomo dice che farà rapporto e che ogni tanto passerà a controllare gli spogliatoi. Osvaldo ha finito il turno e offre ad Alba la sua cappa di riserva. E’ sicuramente un po’ grande per lei, ma almeno è pulita. Gliela sistema e le dice di non pensarci troppo. Quando arriva in reparto per iniziare il turno, Maurizio, sgarbato, le fa notare che ha venti minuti di ritardo. Alba non gli risponde.
Il pomeriggio precipita veloce verso sera e la fine del turno. Mentre si cambiano, Maurizio si avvicina e le chiede perché ha una cappa che non è la sua. Alba lo fulmina con lo sguardo, ma la sua scontrosità sembra eccitarlo e le si avvicina, il volto a pochi centimetri. E’ sabato, le dice, potremmo berci qualcosa e divertirci un po’. Quel sorriso così stupido, quel fiato che puzza di Marlboro. Alba chiude il suo armadietto a chiave e esce.
Fuori, ad aspettarla, trova la guardia giurata, che si offre di accompagnarla alla macchina, gliel’ha chiesto Osvaldo. Alba è stanca, lo ringrazia e si fa accompagnare. Tutto a posto, signorina? Tutto a posto, grazie. In giro non si vede nessuno, la sera è tranquilla. Seduta in auto, finalmente, lascia andare i nervi, chiude gli occhi, si massaggia le tempie.
Una botta forte, sopra il cofano, la fa sussultare. Un’ombra gigantesca creata dalle luci alte del parcheggio si para davanti al finestrino alla sua sinistra. E’ nera e si muove come un’onda, ha lunghe braccia, sembrano tentacoli. Troia, almeno potresti rispondere quando ti invitano. Poi l’ombra se ne va, senza aspettare risposta.
La domenica l’ha passata da Chiara, hanno mangiato, chiacchierato e Alba le ha lasciato la promessa che andrà a fondo a questa cosa. Poi Chiara l’ha seguita con la sua macchina fino a casa, è salita fino al ballatoio, ha aspettato che entrasse e l’ha salutata. Alba ha chiuso la porta e ha tirato un sospiro di sollievo. Al sicuro, dentro quattro mura. Qualche passo verso la cucina, si domanda se non stia esagerando. Forse è ciò che lui cerca, attenzione. Può essere chiunque, un pazzo, un narcisista, un complessato, un violento, una persona sola. Perché, se anche fosse una persona sola, fragile, in difficoltà, questo lo rende meno pericoloso? Se lo ripete Alba, perché a volte è più facile provare pietà che ammettere di essere in pericolo. Va bene, se non la smette, vado dai carabinieri, lo giuro.
E’ domenica sera, c’è ancora tempo. Accende la tv, si lascia cullare dal suo ronzio, non le importa nulla di quello che dicono, ma è come una filastrocca, gli occhi si chiudono, si addormenta. La sveglia un dolore acuto al collo, appoggiato storto sul bracciolo del divano. Non apre subito gli occhi, ma si massaggia la nuca con le dita. La stanza è ormai completamente buia, solo il faro del televisore la illumina, a intermittenza, creando chiarori e ombre. Le figure si muovono come burattini, rotte, spezzate da un ghirigoro scuro che si allunga per tutta la diagonale dello schermo, un ricamo nerastro, una scritta. Uccidimi.
Alba lo legge prima ancora di leggerlo. Lo legge la sua mente prima dei suoi occhi. La paura le cola densa e fredda giù per la schiena, le morsica il cuore, le stringe i polmoni, le leva l’aria. E’ seduta, non riesce a muoversi. E’ stato lì. È lì. E lei non riesce a muoversi.
Vuole prendere respiro ma le esce un rantolo, un crepitio aspirato che sembra il cigolio di una porta. Uccidimi, uccidimi, uccidimi. Le rimbomba nella testa come il sibilo trascinato di una sega circolare, le squarcia le orecchie, le pulsa ottuso nel sangue, la raggiunge fin dove si è nascosta, dentro l’anima. La scritta si snoda sullo schermo come una serpe, mentre mille immagini dietro proseguono la loro danza inutile.
All’improvviso, dalla gola le sgorga un grido di lupo, una voce di metallo, di lamiera che vibra. L’aria ricomincia ad entrare nel suo corpo e Alba si alza e grida, chi sei, chi sei, che cosa vuoi. Quando il suono si spegne, il silenzio si riappropria degli angoli, appena un lieve fruscio vicino al televisore. Alba accende la luce, nella stanza tutto riemerge, si ridefinisce. Agguanta quel barlume di forza e spalanca la porta del bagno, della camera da letto, guarda in cucina. Frenetica, atterrita, folle. La casa è vuota, nessuno vi è nascosto, nessuno la minaccia, la porta di casa è chiusa. Torna in soggiorno, forse l’ho sognata, si dice, ho immaginato tutto. La scritta è sul televisore, rossa come una cicatrice fresca. Con una furia isterica cerca di strofinarla via con le mani, ma il pennarello è indelebile, non se ne va. Allora spegne il televisore, gli toglie la luce e la scritta si smorza.
Bastardo, bastardo. L’idea che sia stato a pochi centimetri da lei, che forse abbia respirato il suo respiro, quest’idea la disgusta, le lascia brividi che sono scosse elettriche. Cerca il cellulare ma non lo trova, vuole chiamare la polizia, ora basta, è il momento di farla finita. Guarda nella borsa, sul comodino, sotto al divano, niente. Cerca di pensare se lo aveva quando è tornata dalla casa di Chiara, ma è confusa, non se lo ricorda. E’ tentata di uscire, andare dalla vicina, ma poi pensa che è notte fonda e svegliarla potrebbe spaventarla a morte. Alba chiude la porta di casa a chiave e mette il chiavistello, poi si precipita a tirare giù le tapparelle di tutte le stanze e della portafinestra della cucina. Adesso voglio vedere come entra. Lascia tutte le luci accese, prende uno dei coltelli da arrosto e va in camera, si avvicina al letto. Sul copriletto, sparsi come coriandoli, una manciata di ritagli di carta bianca. Sopra, Uccidimi, Uccidimi, Uccidimi.
Le luci si spengono, le tapparelle chiuse non lasciano trapelare nemmeno uno spiraglio, l’oscurità è ferro, è piombo, è pece. Impenetrabile, imperscrutabile, nera. Alba ora grida, grida con tutta la voce che ha, un urlo che lacera, che dura ore, che si gonfia d’angoscia, di terrore, che nel buio rimbalza, si rifrange, si moltiplica. Grida, basta adesso, lasciami andare, basta, basta, se devi uccidermi, fallo, uccidimi, uccidimi. Un corpo davanti a lei, lo sente, ne avverte la forma nell’aria perché non vede nulla. E con tutta la forza che ha, la violenza delirante dell’esasperazione, affonda il coltello nel buio, lo immerge come in un pozzo e ancora, ancora, finché avverte un rumore di ossa schiantate, un gorgoglio d’acque reflue, un sibilo rauco. E dall’oscurità un soffio che dice, grazie.
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