Una chiacchierata sull’arte contemporanea con Cesare Viel in epoca di quarantena mi sembra un’ottima premessa per presentare il suo nuovo canale YouTube.
È da quando ho partecipato all’inaugurazione della sua personale “Più nessuno da nessuna parte” al Pac di Milano lo scorso ottobre che vorrei parlare delle suggestioni che mi ha indotto l’assistere alla potente performance “Il giardino di mio padre”.
Non è ancora tempo, mi dico. Come se qualcosa mi impedisse di affrontare quelle emozioni, sensazioni e percezioni. Una mancanza, un lutto, una elaborazione. Rivivo il momento della performance, gli oggetti ri-trovati e ri-perduti nel giardino. Che evocano memorie, vissuti, rimozioni, immagini che riemergono e soffocano senza fine.
Il compito dell'arte è (anche) quello di prevenire gli eventi. Sentire. Vivere una vibrazione in sintonia con quello che accade nel mondo. Compito illuminante talvolta ingrato di mostrare la realtà, senza spiegarla ma semplicemente disvelare qualcosa che forse avevamo sotto gli occhi ma che non vedevamo o non capivamo.
L'arte può portare alla consapevolezza?
Alla luce di quello che sta accadendo non ti sembra di essere stato preveggente?
Mai titolo è stato più indovinato del tuo. “Piu nessuno da nessuna parte”, in una terra sofferente, abitata da uomini in affanno. Costretti a isolarsi per la salvezza, chiusi nelle case a (immaginare) e scrivere il giardino. C'è un modo per mettersi in ascolto in un mondo sovraesposto, un mondo di ridondanza di informazione, di ricerca di autenticità della notizia. Come ripensarsi oggi?
L’arte per me, se ci penso, è stato sempre un modo per riuscire ad accettare il mondo, direi soprattutto il mondo della vita, la condizione umana. La natura in fondo non dobbiamo accettarla, perché accettare che esista una cascata o una montagna? Un fiume o un bosco? Perché invece dobbiamo accettare la vita? Intendendo la nostra vita? Perché la nostra vita, intendendo la condizione umana, è invece così difficile da accettare? A volte così insopportabile? A questa domanda non c’è una risposta univoca, proprio per questo credo che l’arte sia un continuo tentativo di rispondere a questa domanda che non ha una risposta. Il desiderio di ri-porre sempre di nuovo questa domanda è una delle ragioni per cui continuo a fare arte. La strana risposta che l’arte mi offre è sempre qualcosa d’altro, fatta di una natura misteriosa e spiazzante nella sua ambigua potenza: non è in realtà una risposta ma piuttosto uno spostamento della domanda, un’ombra che si fa viva e respira con noi così come può fare solo un altro corpo vicino, pulsante e vivo. In questo senso l’arte nella sua continua e ossessiva richiesta di senso, nel suo procedere per scarti e domande ulteriori, può a volte anticipare il futuro, perché ha un piede nel tempo in cui siamo e l’altro esposto nel nulla, sul vuoto, a precipizio. Ti ricordi certe scene del cinema comico muto in cui degli acrobati-attori (come Buster Keaton) camminavano su travi, sospese nel vuoto, di impalcature di grattacieli? Personalmente soffro di vertigini ma nello stesso tempo sono attratto dal vuoto. L’arte mi fa lo stesso effetto, un colpo al cuore che tonifica, un “finalmente!”, come l’esclamazione di una rivelazione e di una forma di liberazione.
L’arte può produrre consapevolezza. Credo proprio di sì. Anzi ne sono convinto. L’arte produce ascolto, disponibilità all’apertura, allo stupore, alla possibilità di vedere il mondo così com'è.
Penso all'intenso corto che hai realizzato, “Hotel Roma-ritratto d'un amico” per celebrare Cesare Pavese. Anche qui ci mostri un'assenza/ presenza potente nella camera dove lo scrittore si è tolto la vita. La mancata realizzazione della performance (un’assenza anch’essa) trova comunque espressione nelle immagini e nelle parole che Natalia Ginzburg dedica all'amico, evocate dalla tua lettura. Una duplice assenza/ presenza che si materializza e si fissa per sempre.
Le performance spesso non si ripetono. Non serve? Continuano a lavorare nel sottosuolo? Ancora oggi, a distanza di sei mesi dalla manifestazione al Pac, ho avuto diverse visioni e sollecitazioni. Su più piani: personale (elaborazione dei miei lutti) e universale, un lutto globale che stiamo vivendo ora nel mondo, uno spartiacque collettivo tra un prima e un dopo.
In effetti penso che nel cuore della performance art ci sia proprio la questione dell’elaborazione della performance nella mente di ognuno nell’arco di tempo successivo all’azione stessa. È come un sasso lanciato nello stagno: l’azione performativa produce dei cerchi che si propagano e risuonano anche dopo, per lungo tempo. Per progettare e fare una performance ho bisogno di carsiche elaborazioni nel tempo, per essere poi la performance “digerita” dal pubblico una volta vista ci vuole ancora altro tempo. In tal senso l’arte performativa è sì il corpo presente in quel preciso momento ma poi, in un secondo tempo, è anche proprio l’elaborazione di quel tempo che trascorre, attraverso l’assenza. Si tratta di far lavorare l’emozione che ha lasciato in noi. Il fatto che quel corpo non sia più lì (né quello del performer né quello del pubblico) è un elemento essenziale e costitutivo per me del linguaggio della performance. È proprio da quel vuoto rimasto che può “partire” il processo di rielaborazione, di ri-significazione ulteriore e soggettiva. La performance è un lavoro cruciale sul tempo ulteriore, sul tempo differito, su un “secondo tempo”, oltre che sullo spazio e sul momento presenti e reali. Una elaborazione infinita della traccia di ciò che è stato. Sia l’azione intorno a Pavese sia quella intorno alla morte di mio padre sono state performance che hanno avuto al centro la relazione tra presenza e mancanza. E il luogo in cui sono accadute le azioni ovviamente contribuisce non poco alla formazione dell’esperienza che porteremo a casa, dopo.
Il tempo della performance è ambiguo e complesso: è qui e ora ma è anche là e oltre. Sempre anche da un’altra parte, nel tempo e nello spazio. È un inseguimento, uno smarrimento, una dissolvenza.
In questa ambiguità, in questa imprendibilità sta anche il suo fascino, la sua forza creativa.
Perché possa essere un lavoro così denso su secondo tempo, sul tempo ulteriore, la performance deve poter mettere in campo prima di tutto però la dimensione reale del momento presente.
Possiamo dire tutta la verità? Questa secondo me è la vera domanda sottesa nella pratica artistica, che sia installativa o performativa, che sia un quadro, una scultura o un disegno. Quando sento affiorare questo tema, questa domanda (la possibilità e/o la necessità di dire la verità), sento crescere l’intensità della temperatura dell’arte. E sento tutta la questione immensa della morte, della condizione mortale. Non possiamo dire tutta la verità perché essa si svela a poco a poco nel corso del tempo, e noi non riusciamo a percepirla tutta in un colpo solo, è per questo forse che abbiamo a disposizione l’arte che ci permette di elaborare in tempi diversi in momenti successivi il venire a galla della verità. Il venire a noi in superficie della verità. Superficie e profondità, come visibile e invisibile, si accompagnano, si aiutano reciprocamente e costituiscono le due facce della moneta.
Cosa ti ha spinto proprio ora ad aprire un canale YouTube?
In questo drammatico e lungo periodo di coprifuoco per la pandemia, così assurdo e sospeso per tutti, ho avvertito ancora di più la necessità vitale di reimparare a respirare, per resistere e non darla vinta a questa pandemia, nell'unico modo che mi è realmente possibile: diffondendo sui canali web un altro virus: quello di un'attitudine a un'arte che sprigioni un desiderio di libertà, verità e resistenza. Cito a questo proposito il pensiero di Antonin Artaud: "La cosa più urgente non mi sembra ora difendere una cultura, la cui esistenza non ha mai salvato nessuno dall'ansia di vivere meglio e di avere fame, ma estrarre da ciò che chiamiamo cultura, delle idee la cui forza di vita sia pari a quella della fame. (...) Se il segno dei tempi è la confusione, vedo alla base di tale confusione una frattura fra le cose e le parole, le idee, e i segni che le rappresentano." (Antonin Artaud, "Il teatro e il suo doppio", Einaudi, Torino 1968, pag. 127).
Che dire di più? Sento che oggi più che mai dobbiamo mettere a fuoco i nostri strumenti, le nostre capacità emotive e intellettuali per poter continuare a vivere nel modo più autentico.
redazione@themeltingpop.com
CESARE VIEL (Torino, 1964) espone in Italia e all’estero dalla fine degli anni Ottanta in gallerie private, musei e fondazioni. Vive e lavora a Genova, dove insegna all'Accademia di Belle Arti. Nel 1991 si laurea in Lettere Moderne, all'Università di Genova, con una tesi su Asger Jorn e il Situazionismo. Il suo lavoro artistico, di attitudine concettuale e performativa, è incentrato sulle questioni della soggettività, della relazione e dell’identità di genere, e sul rapporto tra il linguaggio della comunicazione, la letteratura e le immagini. La sua pratica espressiva si muove tra performance e installazione. Si serve di vari mezzi espressivi come il suono, la voce, la scrittura, la fotografia, il video, il disegno. Nel corso degli anni Novanta partecipa a importanti mostre tra cui:
1992 Molteplici Culture, a cura di Carolyn Christov Bakargiev e Ludovico Pratesi, Convento Sant’Egidio-Museo del Folklore, Roma.
1994 Soggetto/Soggetto, a cura di Francesca Pasini e Giorgio Verzotti, Museo d’Arte Contemporanea, Castello di Rivoli, Torino.
1996 Ultime generazioni, XII Quadriennale d’Arte, Palazzo delle Esposizioni, Roma.
1997 Officina Italia, a cura di Renato Barilli, GAM, Bologna e altre sedi.
1998 Subway, a cura di Roberto Pinto, Metropolitana Milanese, Milano; La Ville, le Jardin, la Mémoire, a cura di Carolyn Christov Bakargiev e Hans Ulbrich Obrist, Villa Medici, Roma; Disidentico, maschile femminile e oltre, a cura di Achille Bonito Oliva, Palazzo Branciforte, Palermo.
Nel 1997 è tra gli organizzatori del convegno Come spiegare a mia madre che ciò che faccio serve a qualcosa, al Link di Bologna. Nel 1998 vince a Bologna il Premio Francesca Alinovi. Nel 1999 partecipa, con Cesare Pietroiusti, Luca Vitone, Eva Marisaldi, Salvatore Falci e altri, al progetto Oreste alla Biennale, alla 48esima edizione della Biennale d’Arte di Venezia, a cura di Harald Szeemann.
Nel 2008 esce una monografia sulla sua attività performativa: Cesare Viel. Azioni 1996-2007, a cura di Carla Subrizi, Silvana Editoriale e Fondazione Baruchello, Milano-Roma. Sempre nel 2008 il Museo d’Arte Contemporanea-Villa Croce, Genova, gli dedica una prima retrospettiva, Mi gioco fino in fondo. Performance e installazioni.
Nel 2019 il PAC, Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano ospita un’ampia personale: Più nessuno da nessuna parte, a cura di Diego Sileo, con catalogo edito da Silvana Editoriale. Una sua opera entra a far parte della collezione permanente del Museo del Novecento di Milano. Nel 2020 inaugura Scrivere il giardino, la sua quarta personale alla Galleria Pinksummer, Genova. Tra le altre recenti mostre personali si segnala:
2017 Dar conto di sé. Figure, corpi, parole nell’opera di Cesare Viel, a cura di Francesca Pasini, Fondazione Remotti, Camogli (GE).
2015 Infinita ricomposizione, Galleria Pinksummer, Genova.
2013 Tales and Things, a cura di Martina Adami e Maura Favero, MLAC, Museo Laboratorio d’Arte Contemporanea-La Sapienza, Roma.
2011 Facciamo fluire via le nostre frasi, a cura di Francesca Guerisoli, Fondazione Pietro e Alberto Rossini, Briosco (MB).
2010 Solo ciò che accade, a cura di atitolo, CeSAC-Il Filatoio di Caraglio, Caraglio (CN).
2008 Avvicinandoti a distanza, Galleria Pinksummer, Genova.
2004 Tu che mi hai disegnato, a cura di Guido Curto, Fondazione Palazzo Bricherasio, Torino.
2001 VIM Very Italian Macho (con Luca Vitone), Galleria Emi Fontana, Milano.
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