di Chiara De Nardi
Sulla copertina verde acqua di Più grande di noi, di Raul Montanari (Hopeful Monster, Collana Pennisole), un amo bianco trafigge il titolo e il sottotitolo, che recita “Confessioni di un pescatore a mosca”.
Articolato in una serie di capitoli che tracciano il percorso di formazione ed evoluzione dell’autore, intimamente intrecciato al processo di scoperta e addestramento alla pesca, il libro si sviluppa in uno spazio permeabile e aperto, tra il racconto autobiografico e un trattato sentimentale, filosofico e a tratti umoristico sull’arte alieutica.
Con il ritmo e il vocabolario di un’uscita a pesca, tra momenti didascalici e dissertazioni teoriche, affondi nel vissuto personale e divertissement goliardici, riflessioni acquatiche e istanti sospesi nella contemplazione, Montanari ricostruisce la storia di un innamoramento, di una passione in grado di colmare la vita, i pensieri, i sogni.
Proprio nelle prime esperienze oniriche dell’autore inizia il racconto, dentro sogni che sprofondavano in abissi insondati, acque buie da cui cui affioravano pesci fossili e creature luccicanti: “la visione mi riempiva di emozioni violente, traboccanti, che non avrei saputo definire. – ricorda Montanari – Era come se una parola decisiva fosse lì per essere pronunciata, un significato stesse per svelarsi ai miei occhi di bambino”.
L’incontro con la pesca, rivissuto a posteriori come una rivelazione, è agevolato dal fatto che Montanari nasce e cresce intorno al grande lago Sebino, il lago d’Iseo, e capisce ben presto quanto la presenza dell’acqua influenzi il ritmo, i pensieri e la qualità della vita che le attecchisce intorno. Trasferitosi a Milano, infatti, potrà sperimentare i diversi effetti di una sistematica rimozione dell’acqua, che quasi ovunque è stata sotterrata, nascosta, dimenticata, a differenza di altre metropoli sviluppate su golfi o grandi fiumi.
Con il passare degli anni e con lo sviluppo della tecnica e delle conoscenze alieutiche, Montanari abbandona il lago per il fiume, vero luogo d’elezione per il pescatore esperto, un panta rei che dischiude una quarta dimensione: la corrente, che è vita che scorre luccicante e veloce, e contagia con il suo incessante fluire i pensieri e il modo di stare nel mondo, nell’acqua, tra gli alberi e la sabbia bagnata. Se il lago è il liquido amniotico che ha cullato e accolto i primi incontri con il mondo subacqueo, l’acqua del fiume è fluido seminale impaziente, “urgenza, pulsione che cerca sfogo e si incanala tra le sponde”.
Nel fiume Montanari sviluppa tecnica, conoscenze, strategie e anche il suo rapporto con la pesca, con la natura che lo circonda, con i pesci che scivolano sotto la pellicola traslucida e sottile che separa i due mondi.
La pesca è occasione di incontro con una natura più potente e meno prevedibile, non imbrigliata dal contesto urbanizzato, è “un posto in cui ci si potrebbe nascondere”, “in cui si potrebbe morire presi a tradimento da una natura ancora forte e insidiosa – non spegnersi nell’orrore delle lenzuola bianche e dell’odore di disinfettante, ma annegare nella corrente, sprofondare nel fango. Cadere in uno strapiombo. Essere punti, morsi, sbranati come bestie da altre bestie”. Stare con i piedi a mollo, sotto le fronde degli alberi che si richiudono intorno cancellando la città e la sua vita, avvicina all’acqua, alla terra, al fondale ghiaioso, e, può capitare, in quel limbo acquatico, di essere investiti da una verità esplosa, che si rovescia su ogni cosa e fa sentire minuscoli e indifesi.
Ma si tratta anche un avvicinamento alla propria natura di animale, debole e impacciato nell’acqua e tra le pietre scivolose, ma anche scaltro, intelligente, innamorato, spietato.
Tutto, dallo studio, alla pratica, dall’affinamento della tecnica, alla collezione di esche e strumentazioni sempre più efficienti ed elaborate, conduce infatti a un unico obiettivo: la cattura. Non l’uccisione, bensì l’atto di catturare, carpire un pezzo di quel mondo occulto e ribaltato, riuscire a irretire, persuadere, ingannare la vita che sta oltre lo specchio, misurare le proprie capacità, la competenza, l’astuzia e l’esperienza nel tirare fuori un pezzo di fiume che vibra di vita, attrarlo a sé per poi restituirlo al suo mondo, “voglio riempirmi gli occhi di questa vita, almeno per qualche istante – scrive Montanari – e poi restituirla al suo mistero”.
Si innesta qui un discorso che sfiora questioni etiche e ambientali e riflette sulle conseguenze della pesca, in particolare di quella scuola di pensiero che sceglie di non uccidere il pesce ma di rilasciarlo subito dopo la cattura (catch & release). Montanari ricostruisce le radici di questo approccio, dalla nascita della moderna pesca a mosca nell’Ottocento, giungendo alle più recenti e diverse posizioni ambientaliste a favore o contro la pratica della pesca sportiva, che vedono i pescatori come utili sentinelle del fiume, esperti studiosi delle diverse specie ittiche, del loro comportamento e della loro salute, o come arroganti e spietati disturbatori della vita che scorre pacifica sott’acqua, che terrorizzano i pesci, senza altro scopo che un egoistico divertissement.
La risposta suggerita dall’autore ha a che fare con la natura di predatore e parassita dell’essere umano, “l’uomo sta nel mondo in modo violento”, dice Montanari, avvelena, distrugge, saccheggia il pianeta e suoi coinquilini da oltre duecentomila anni. E anche laddove mossi da fascinazione e interesse, agli uomini sembra preclusa la possibilità dell’incontro con l’altro senza una componente di aggressività e prevaricazione.
Anche l’amore per la pesca e per i pesci di cui scrive Montanari, perché di amore esplicitamente si parla, è un amore umano, che non può prescindere da quegli aspetti di sopraffazione e prepotenza che caratterizzano da sempre le relazioni dell’uomo con l’ambiente in cui vive.
È un amore che prende le forme del desiderio di possesso, di fusione completa con l’oggetto amato e che nasce da un’attrazione verso l’acqua e ciò che la abita, dal desiderio di partecipare di quella profondità, del mistero di quel “mondo capovolto, dove si respira l’acqua e si muore nell’aria”.
Come se tutta l’acqua che ci si muove dentro e ci riempie volesse mescolarsi a quella che scorre tra gli stivali piantati sul fondale e farsi eterna come il fiume, la sabbia, le pietre: “voglio toccare il cuore stesso del mondo, compenetrarmi con esso. Voglio sentire la vita nelle mani e averla negli occhi, stanarla dai suoi nascondigli ed essere certo, una volta di più che la mia, di vita, è una piccola cosa immersa in questo grande fiume inconoscibile e che quando io non ci sarò più la trota sarà sempre dietro quel masso, dentro quella buca da cui l’ho fatta uscire un giorno”.
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