Leggere un giornale in genovese? Vi era mai capitato prima?
È davvero curioso e anche divertente.
A Genova è tornato O Stafi, dopo oltre cent’anni.
Una rivista mensile che parla di politica, coltua e varietæ.
Interamente scritta in dialetto.
Una grafica elegante ed essenziale, un ritorno alla storia delle vecchie gazzette dell’Ottocento per ripartire con un nuovo progetto, un luogo di idee e di confronto sui temi dell’economia e della politica in un’ottica progressista.
In genere siamo abituati ad attribuire al dialetto genovese una connotazione comica, legata alle storielle e alle barzellette oppure alle ricette di cucina.
De André a parte, che ha fatto un grande lavoro filologicamente accurato della lingua ligure con il suo Crêuza de Mä.
Perché un giornale cartaceo nell'era del web e perché in genovese?
Lo abbiamo chiesto al direttore di O Stafi Andrea Acquarone e alla co-direttrice Camilla Ponzano che hanno avuto la passione e l'entusiasmo di iniziare questa avventura.
“Fino a circa 26 anni” ci racconta Acquarone "ho sempre scherzato sul tema; ricordo che da snob avevo una battuta per definire certe còccine, le definivo come un dialetto dell'interno. Associavo la lingua locale, che chiamavo dialetto, all'Entroterra, all'arretratezza, alla perifericità, alla ruspantezza, alla vecchiaia. Quando ero piccolo, a fine '80, inizi ’90 sentivo parlare genovese dai nonni e in generale in giro per la città, da persone avanti con gli anni. Mi piacevano la cadenza e le battute che si facevano in quella lingua, e pensavo che avrei imparato a parlarla quando sarei stato vecchio.
Poi sono cresciuto e mi sono dimenticato del poco genovese che sapevo, non pensai più al tema se non per irridere. Finché non conobbi Julia, che ora è mia moglie, che con la sua catalanità mi portò ad intendere che l'aver perso la lingua dei nonni era una discontinuità senza senso. A dire il vero lei fu la goccia in più, perché per altri versi, studiando l'economia, ero arrivato ad interessarmi alla dimensione regionale come elemento base dello sviluppo economico e politico; ma il discorso culturale, introdotto senza intenzione da Julia, completava l'analisi. Ricordo che eravamo seduti ai tavolini di Piazza della Lepre, nell'inverno del 2010, quando ci dicemmo "avremo dei figli bellissimi, e gli parleremo genovese e catalano". Io all'epoca non sapevo più di 20 parole in genovese.
Ho vissuto per lunghi periodi in Catalogna imparando il catalano, e mentre imparavo il catalano studiavo il genovese. Venne naturale, le lingue si assomigliano. Del resto, il francese, lo spagnolo, l’italiano, il catalano e il genovese, il portoghese, così come diverse altre lingue romanze (dall'occitano al piemontese al napoletano, ecc.) sono in fondo dialetti del latino.
Quando tornai a Genova decisi di far qualcosa per il genovese, di salvarlo dalla sua naturale estinzione. Interrompere la dinamica naturale e sociale nell'evoluzione di una lingua è un atto di violenza, un atto intrusivo. Questo creava una certa reticenza. Del resto, non parlare la lingua propria a due generazioni prima nemmeno è naturale. Non avere coscienza di questa perdita lo è ancora meno.
Fino a oggi ho promosso numerose iniziative di tutti i tipi, per cercare di invertire questa dinamica, e ho studiato moltissimo - specie alcuni anni fa - sociolinguistica.
Il punto di svolta della mia attività arriva quando il Secolo acconsente alla mia idea di pubblicare una pagina in genovese, chiamata Parlo Ciæo. L'iniziativa ebbe enorme successo. Ciò mi diede la misura che si poteva fare di più. Un giorno, nell'inverno del 2016, mandai un articolo in cui rivelavo, con dati e pareri autorevoli, che la demolizione della Concordia è stato un disastro ambientale per il quartiere di Carignano. L'articolo non uscì, dovetti scriverne un altro. Quel giorno capii che volevo avere un giornale dove potevo scrivere in totale libertà. E lo volevo ovviamente in genovese.
Decisi di diventare giornalista, dopo aver pubblicato più di 100 articoli retribuiti in 3 anni. Credo di essere l'unico ad aver preso il titolo scrivendo in una lingua non già riconosciuta in nessuna legge dello Stato italiano.
Da giornalista potevo essere dunque direttore.
Che l'inse! l'associazione di attivisti che presiedo, raccolse i fondi per finanziare il progetto, poi grazie all'incontro con Camilla Ponzano, che si occupa della parte grafica, trovammo il modo di concretizzare.
Con Ponzano siamo co-direttori, perché ognuno ha i suoi ambiti, ma il giornale lo facciamo insieme.
Nel maggio 2019 pubblicammo un "numero zero". E cominciò l'avventura.
O Stafi, la frusta, cosa e chi volete colpire?
Vorrei irridere, sbeffeggiare, danneggiare una certa Genova statica, immobile, conformista, perfettina, ricca ma decrepita, bigotta, scout - sì, scout! - che se fosse per lei continuerebbe tutto così, sempre uguale, declinante, in ritardo col mondo, sempre più in ritardo, sempre più periferia, sempre più molli, mal vestiti, senza guizzo, senza charme, senza niente. Spererei che questa Genova odiasse lo Stafì, ma lo comprassero ogni mese per verificare la validità del sentimento.
Nel farlo, vorrei destare dal torpore e dalla depressione quella parte della cittadinanza che può essere destata. Lavorare su una rimozione - e il suicidio delle lingue regionali come il genovese è un fenomeno di rimozione - credo sia utile, e credo che nulla sia più potente - senza appoggio istituzionale - che pubblicare un foglio in questa lingua, che sia intelligente e soprattutto molto letto.
Vorrei poi contribuire al dibattito, anche se a Genova c’è già il giornale di società civile, "La Città" di Luca Borzani che se ne occupa.
Vorrei diffondere una visione regionalista all'interno della sinistra genovese e ligure.
Vorrei diffondere un'idea di Liguria che si considera nuovamente "Il Paese", transitoriamente e incidentalmente all'interno dello Stato italiano, ma proiettata all'Europa e al Mediterraneo.
Vorrei che lo Stafì crescesse e potessi pagare i contributi di chi vi scrive. Vorrei pagare anche il mio lavoro.
Vorrei fondare una cosa che viva anche quando non me ne occuperò più: io amo fondare, dare l'avvio.
Ma per ora siamo all'inizio, e c'è tanto da imparare, sperimentare, faticare.
Camilla Ponzano, è architetto e si occupa di processi di trasformazione urbana, che richiedono livelli di maturazione oltre il medio e il lungo periodo.
“Gran parte del mio tempo, prima di dire la mia su un territorio, la passo a interrogare il territorio stesso, a osservarlo e a ascoltare quello che viene raccontato dalle persone che lo vivono.” Ci racconta la co-direttrice di O Stafi.
“Le cronache dell'abitare (mi permetto di usare il termine preso in prestito da chi − multiplicity.lab − mi ha insegnato questo modo di approcciarmi all'abitare), i giornali di quei lembi di paesaggi che spesso non conosco, sono sempre stati dei fedeli compagni di viaggio per scoprire cosa si nascondesse tra le pieghe. Descritti dalla storia ufficiale o dai soli dati Istat, ma restituiti da queste sole fonti spogliati dalle loro vibrazioni più genuine, dalle loro piccole storie che molto spesso si rivelano oracoli di mutazioni future, campanelli di una criticità o celate ancore di bellezza da cui ripartire.
Da qui la mia passione per il punto di vista locale, sia esso racchiuso nella viva voce di un abitante, sia nelle parole scritte di un giornalista, che possono raccontare quel luogo o da quel luogo descrivere il mondo.
Locale e provinciale non sono la stessa cosa, si cade in quella dimensione quando ci dimentichiamo di assumere il globale e il locale, le città e le campagne, i centri e le periferie, le comunità locali e quelle globali come le facce di una stessa medaglia, e per paura di non essere all'altezza del mondo, ci rifugiamo nel piccolo folklore, che fa ridere una sera, ma poi ci rende malinconici e poco avvezzi all'apertura e alla comprensione di chi non sa fare il pesto o non puccia la focaccia nel cappuccino.
Per questo nasce O Stafî. Perché questa nostra Regione si sta impoverendo sempre più di giornali locali che forniscano un punto di vista che parta da qui.
I giornali mi hanno sempre aiutato a crescere e penso che averne uno squisitamente ligure possa essere d'interesse anche per altri, o almeno che possa essere uno stimolo per un dibattito che parta da argomenti che spesso non guadagnano gli onori delle poche testate che abbiamo. Contribuire, nel nostro piccolo, alla pluralità dell'informazione è un obiettivo importante perché l'informazione è un caposaldo della democrazia che resta sempre uno dei più grandi progetti che abbiamo, anche se ogni tanto ce lo dimentichiamo.
In casa, mia nonna e i suoi figli parlavano in genovese non per raccontarsi le barzellette, ma per comunicare. Quel loro modo di chiamare il mondo lo trovavo assolutamente perfetto perché avevano forme per dire le cose, dalla lista della spesa alla politica, che in qualche modo mi erano vicine anche se non capivo tutto, ma ne intuivo l'intenzione e le loro parole avevano in sé anche il gesto.
Il genovese e le lingue minori dialettali più in generale hanno per me la forza dei luoghi abbandonati descritti da Gilles Clément che lui chiama Terzo Paesaggio. In un'intervista su Rai News parlava di questi luoghi in questi termini: Da sempre i luoghi abbandonati urbani sono stati il terreno di gioco degli adolescenti e di altri utenti dello spazio desiderosi di allontanarsi da spazi soggetti a standard, regole di decoro e all'illusione della pulizia. Nel Terzo Paesaggio si svolgono i sentimenti di libertà. Nello Stafî cerchiamo di dare spunti per comprendere l'ambiente in cui viviamo, perchè questo ci permetterà di sapere come agire, come fare dei buoni gesti, come permettere l’emergere di un futuro più felice. E questi spunti escono più facilmente se si abita uno spazio linguistico, che non solo ci risveglia la nostra memoria, ma che ci rende tutti un po’ più adolescenti, quindi protesi verso il futuro, e fa affiorare sentimenti di libertà.
A proposito dei poteri delle lingue dei territori ricordiamo il ragazzino di Torre Maura che arriva a stabilire un dialogo con un fascista di Casa Pound nel momento in cui dall'italiano passa al romanesco. La cosa straordinaria è che il ragazzo conosce molto bene l'italiano perché è un ottimo studente, ma in quel momento doveva stabilire un ponte con il peggior interlocutore al mondo e quindi sceglie il codice linguistico più efficace. E fa centro.
Leggendo O Stafi, si è portati a condividerlo ad alta voce, è così?
Capita spesso vedere i lettori che spontaneamente reagiscano così e questo mi ha ricordato una cosa che mi disse un anziano portuale, di quelli cresciuti in porto tra le gambe del papà camallo, aprendo il n°0 del giornale e dopo aver letto a alta voce il primo editoriale. Un tempo in porto avevamo un giornale e non tutti sapevano proprio leggere, o magari avevano voglia di mettersi lì a farlo. Allora uno leggeva a voce alta per tutti gli altri. Ecco penso che questa cosa nobile e popolare sia una buona alchimia quando succede e se lo Stafî fa capitare questa cosa non posso che esserne che contenta.
Perché il pesce volante?
Perché noi siamo di acqua e cielo, resistiamo e non ci faremo prosciugare il mare. Ma se succederà abbiamo sempre le ali per volare.
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