di Amalia Patrone
Due giorni fa ricevetti una telefonata dal maggiore dei miei fratelli. La linea era disturbata e la sua voce andava e veniva. “Mi senti?” ripeteva di continuo.
I nostri contatti, da un paio di anni, si limitavano a brevi telefonate da parte mia, in cui giustificavo il mio mancato ritorno a casa. Le straordinarie telefonate da parte sua, invece, riguardavano solo notizie spiacevoli.
Con la telefonata di due giorni fa, mi comunicò il luogo in cui si trovava, accompagnato da una lunga pausa e poi più niente. Disse, “Mi trovo in ospedale…” e nemmeno il tempo di chiedere cosa fosse successo, cadde la linea.
Dopo una serie di telefonate fallimentari, riuscii a capire che la notizia spiacevole in questione riguardava mio padre. Si era sentito male il giorno prima. “Abbiamo aspettato a chiamarti per non farti preoccupare.” E io per un attimo dimenticai cosa stessi facendo. Ero in mezzo al corridoio, davanti alla porta dello stanzino. E non riuscivo assolutamente a ricordare perché fossi lì.
Mio fratello maggiore ha la capacità di appiattire i sentimenti e di vivere qualsiasi cosa con un enorme distacco, il volto inalterabile.
E fu proprio con questa voce atona che mi disse che no, non c’era da preoccuparsi. “Un piccolo dolore, niente di più. Aspettiamo le analisi e poi andiamo a casa.”
Chiesi di poter parlare con lui, “Sì, sì, dopo ti faccio chiamare.”
E quel dopo finì nel dimenticatoio.
Un tempo non stavamo così, eravamo uniti, complici. Poi sono arrivati i fratelli più piccoli, mamma era già morta. Li ricordo come giorni felici, ma io e mio fratello non ne parlammo mai. Poi mi trasferii in un’altra città e la sua frustrazione per non esser stato il primo ad andarsene, spense qualsiasi argomento tra noi. Divennero telefonate patetiche, feste e compleanni imbarazzanti. Anche mio padre subì l’apatia di mio fratello, anzi ne fu proprio investito. Iniziò a colpevolizzarsi e perdemmo tutti quanti il punto della questione.
Litigi, urla, a volte anche odio, tra quei due uomini che non riuscivano mai a capirsi. Ogni frase veniva distorta e poi ripetuta, affinché sembrasse ancora più offensiva. Claudia portava i bambini in camera e alzava il volume della televisione. Io rimanevo seduta in cucina a cercare di placare gli animi.
Durammo poco così, neanche un anno. Mio fratello iniziò a lanciarsi col paracadute per riuscire a provare qualcosa. Mio padre si chiuse a compartimenti stagni e io tornai sempre meno a casa. I bambini impiegavano sempre più tempo a ritrovare la confidenza giusta con me. All’inizio mi guardavano a distanza, sospettosi, diffidenti. Poi si avvicinavano, mostrandomi qualche foglio scarabocchiato, o un giocattolo, e piano piano ritornavano a fidarsi di me. Ma il poco tempo passato insieme non era sufficiente a farmi ricordare da loro il giorno dopo.
Al momento della telefonata di due giorni fa, non tornavo a casa da quattro mesi, mi ero persa il compleanno di mio padre, di Claudia e della mia sorella minore. Avevo rimandato così tante volte, che smisero di aspettarmi. Quella telefonata però andò a stuzzicare il mio senso di colpa. Fumai un numero indefinito di sigarette e comunque non riuscii a ricordare il perché fossi ancora in piedi davanti allo sgabuzzino.
Se mio padre fosse morto non so cosa avrei fatto. Forse mi sarei disperata. O forse no. Comunque questo non fu sufficiente a farmi tornare. Per tutto il resto del giorno mi autoconvinsi che quella fosse la scelta più giusta. Mi era stato detto di non preoccuparmi, un piccolo dolore, niente di più.
Papà morì quattro giorni dopo, mentre annaffiava l’orto dietro casa. Claudia lo trovò in una pozza di acqua e terriccio, con il tubo attorcigliato a un piede e il getto sulla pancia.
Mio fratello si occupò di tutto, come se fosse stato preparato, come se sapesse esattamente cosa fare in una situazione come questa. Gli chiesi solo una volta come stesse. “Sto come te, niente di più”, poi distolse lo sguardo e continuò ad armeggiare con carte e documenti.
Claudia mi chiese di aiutarla con il vestito. Aprì l’armadio di mio padre e passò la mano sulle camicie appese. Respirò su una manica e poi lo ammise. “Non credo di farcela.”
Qualcosa mi raschiò la gola e poi sentii la perdita e il dolore. E anche un po’ di paura.
Amalia Patrone, classe '95 e quattordici traslochi all'attivo, che mi hanno fatto scoprire e amare diverse città tra la Liguria e la Lombardia. Ho studiato cinema, televisione e pubblicità, tutte cose fighissime che hanno nutrito ed esasperato qualsiasi mia passione per la lettura, la scrittura e le serie tv. Tra le cose che amo: i libri di Carrère, il mio cane sordo, l'uomo che mi sopporta, il caffè e le sigarette.
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