Dalle persiane filtravano lame di luce. Mirko si mise seduto sul letto. Sbadigliò grattandosi la barba. Con la testa fece un cenno di saluto al manifesto del Che ingiallito dal fumo di sigaretta. Un lembo del poster, attaccato con lo scotch alla tappezzeria, si era staccato e la carta pendeva sull’occhio del comandante. Mirko si alzò e andò in bagno a piedi nudi. Indossava una canottiera d’altri tempi che non faceva di lui Marlon Brando. Era magro e nervoso, coperto di ispidi peli neri. Si sedette per pisciare. Il rumore del vecchio boiler malandato faceva da bordone al suo scroscio. Alzò gli occhi sulla tenda di plastica bianca che proteggeva la vasca: era staccata in più punti dagli anelli che la tenevano fissata all’asta di alluminio. Mirko distolse lo sguardo. La casa andava a pezzi ma che importava. Aggiusti una cosa e poi se ne rompe un’altra; quindi meglio fare finta di niente finché si può. Dal silenzio si rese conto che era Domenica. La camionabile di fronte al suo condominio era silenziosa. Il rumore di un’automobile di tanto in tanto. Ma per lui domenica o un altro giorno era lo stesso; tanto non lavorava, non aveva impegni. Solo Grace. La piccola Grace. Si scrollò. Percorrendo il corridoio per andare in cucina, passò davanti alla camera di suo padre. Si fermò davanti alla porta ad ascoltare il respiro pesante del vecchio, che ogni tanto digrignava i denti. In cucina prese una vecchia zuppiera sbeccata dal ripiano di formica, l’aprì e afferrò una manciata di spiccioli. Indossò dei vestiti che gli erano invecchiati addosso dai tempi della scuola, quando era un promettente rompicoglioni e animava tutte le rivolte studentesche con il megafono sottratto di nascosto dall’oratorio di padre Modesto. Cos’era successo poi, negli anni a venire, non lo aveva capito. Quando lo incontravano, i vecchi compagni lo guardavano con un misto di simpatia e compassione e gli allungavano qualche euro. Era diventato il monumento della loro gioventù sepolta. Mirko non era cambiato: parlava come quando aveva 17 anni, indossava la kefiah, una vecchia giacca di velluto blu e delle Clarks oramai scolorite. Girava sempre con un libro sotto il braccio e voleva cambiare il mondo. Aveva quarant’anni ed era mantenuto da suo padre, operaio dell’ILVA in pensione.
Anche per Grace domenica era un giorno come un altro. Si alzava tutti i giorni alle cinque per aprire il bar di Mario che si trovava in un vecchio edificio sgarrupato sulla camionabile. Pochi condominii intorno, circondati da strade, svincoli e distributori di benzina. Viveva in quel quartiere da quando era nata. Sua madre, donna sentimentale e dal pianto facile, l’aveva chiamata Grace nella speranza che un nome regale potesse sottrarla a una vita di merda. E in effetti, forse, a qualcosa quel nome era servito. Era altera, silenziosa, sembrava che niente di ciò che la circondava potesse toccarla. Grace uscì come ogni mattina rintanata nel suo giubbottino similpelle. I lunghi capelli castani costretti in una coda di cavallo scoprivano il tatuaggio sul collo bianco: un piccolo delfino circondato da un tripudio di gocce azzurre. Non aveva neanche vent’anni e, anche per questo, era bella; la vita non l’aveva ancora cariata. Ma la bellezza da quelle parti non durava a lungo. Aprì il bar mentre albeggiava. Il cielo era di un timido azzurro venato di rosa ma lei non poteva vederlo mentre infornava cornetti congelati nel forno del retro.
Qualcuno suonò alla porta. Mirko aprì. Era Roberto, l’infermiere che si prendeva cura di suo padre un paio d’ore al giorno. Si scambiarono un cenno di saluto. “Dorme ancora?” “No, non credo.” Roberto percorse il corridoio ed entrò nella stanza del vecchio. Mirko rimase qualche secondo ad ascoltare la voce pacata di Roberto che parlava a suo padre. Indossò la giacca davanti alla vecchia specchiera dell’ingresso, si scompigliò i capelli, prese il libro sulla mensola , lo mise sotto il braccio e uscì. Fuori il sole era ormai alto. Era una bella giornata di primavera. Persino gli alberi striminziti che adornavano le sparute aiuole fra un palazzone e l’altro, sembravano godere del calore del sole e del divieto ai camion di circolare. Mentre camminava, Mirko faceva tintinnare gli spiccioli nella tasca della giacca. Pensava a Grace, al fatto che di lì a poco l’avrebbe vista. Il bar di Mario era il centro sociale di quella manciata di case popolari. Gli abitanti, costretti a restare perché non avevano altra scelta, trascorrevano lì la maggior parte del tempo libero, cercando nello sguardo vuoto degli altri avventori la conferma della loro esistenza. Mirko e Grace non parlavano, non erano amici. Grace faceva il suo lavoro e quando aveva un attimo di pausa, si sedeva sullo sgabello vicino alla macchina del caffè e guardava fuori dalle vetrate, come se aspettasse qualcuno o, forse, solo di uscire. Mirko andava ogni mattina da Mario a prendere il caffè per vederla. Gli piaceva quella strana intimità senza parole che si era stabilita fra loro grazie alla consuetudine. Quando lui entrava, Grace cominciava a caricare la macchina del caffè. Poi gli metteva il piattino davanti e gli serviva un caffè lungo con un goccio di latte caldo, come piaceva a lui. Mirko le sorrideva complice e Grace rispondeva con un cenno della testa. Quel giorno il sole che entrava dai vetri lerci del bar, illuminava la carnagione bianca di Grace e Mirko godeva di quella visione rubata con la coda dell’occhio mentre sorseggiava il caffè. Ad un certo punto qualcosa disturbò la sua contemplazione e Mirko fu costretto a voltare lo sguardo verso Grace. Mario, il padrone, un cinquantenne laido, passando dietro Grace per andare dall’altra parte del bancone, si era appoggiato con il bacino al corpo della ragazza e aveva sfiorato le sue natiche con le mani. Grace sembrava non essersi accorta di niente. Guardava fuori dalle vetrate con ostinazione. Il respiro successivo alla visione fu doloroso per Mirko. Gli sembrava di inspirare lava. Era pieno di rabbia. Strinse i pugni e chiuse gli occhi.
“Sei un verme fascista.” Urlò improvvisamente. Il gruppetto di clienti che ciondolava nel bar a quell’ora lo fissò in silenzio. Mario lo guardò sorpreso “che cazzo dici! Datti una calmata Mirko.” “Ti ho visto, merda, ti ho visto. Ti approfitti di quella povera ragazza che ha bisogno di lavorare e per quattro soldi è costretta a tollerare le tue mani luride.” Mario lo fissava con un ghigno sulla faccia grassa e butterata. “Ti rendi conto che questo è un abuso ai danni di una lavoratrice? Potrebbe denunciarti per questo, lo sai?” continuò Mirko guardandolo dritto negli occhi “Ti rendi conto che lei non può difendersi perché ha paura di perdere il lavoro?” Anche Grace lo guardava, ora, quasi con interesse. “Sei un fascista, Mario, eppure sei cresciuto anche tu in questo quartiere di merda. Eri un compagno, una volta…”
Mirko aprì gli occhi al rumore secco che fece Grace sbattendo il filtro della macchina sull’asta di legno per scaricare il caffè. Le nocche delle mani erano bianche e gli facevano male. Aveva lo sguardo chino. Vedeva il riflesso del suo volto, distorto dall’alluminio usurato, frammentarsi nelle gocce d’acqua sul bancone. Davanti ai suoi occhi passò lo straccio di Grace, che prese la tazzina vuota col piattino e la sistemò nel lavello. Lasciò i soldi sul piattino di plastica vicino alla cassa e si voltò per uscire. Mario era seduto a un tavolino sgangherato a leggere il giornale. Un tipo del complesso B, che conosceva di vista, beveva un bianchetto con gli occhi ficcati nel bicchiere. Si fermò sulla soglia e si voltò verso Grace seduta sullo sgabello che guardava fuori. Chissà, forse aspettava qualcuno, oppure, solo di uscire.
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