di Bruno Morchio
Mascaró
di Haroldo Conti
Prefazione di Gabriel García Márquez
Traduzione di Marino Magliani
Exorma 2020
La vita è una nave più o meno bella. Perché tenerla all’ancora? Lasciamola andare. Perché lo dico? Perché il meglio della vita lo buttiamo via cercando sicurezze. Porti, ripari e ancoraggi sicuri.
Queste parole potrebbero assurgere a sintesi della poetica (e delle scelte di vita) di Haroldo Conti e dell’essenza stessa di questo straordinario romanzo, scritto dal grande scrittore argentino poco prima di essere sequestrato e ucciso dai militari fascisti del generale Videla.
L’opera è divisa in due parti, Il circo e La guerriglia, e prende le mosse da una taverna, luogo nevralgico, quasi mitico, che ritroveremo più e più volte nel corso della narrazione, a ricordarci che il corpo, attraverso il cibo il vino e il sesso, è il luogo della vita (il protagonista Oreste, dopo avere subito le torture dei rurales, ritorna a vivere quando si accorge di sentire nuovamente il proprio corpo). Locande e pensioni sono infatti luoghi di transito, stazioni di un incessante cammino sulla strada, che per Conti non è solo un luogo, ma una dimensione dell’esistenza. Da Arenales parte uno scalcinato battello, il Mañana (già il nome è tutto un programma) comandato dal capitano Alfonso Domínguez, alla volta di Palmares, dove il Principe – mago, indovino, poeta e attore - raggrupperà un’improbabile combriccola di saltimbanchi che col Circo dell’Arca attraverserà il deserto e i suoi paesi, mietendo successi e componendo una variegata galleria di personaggi: da Nuño a Bocca Storta, dal nano Perinola a Farseto, dal leone Budinetto al misterioso cavaliere oscuro, il cacciatore Mascaró, dal lottatore Carpoforo alla vedova Sonia le cui dimensioni si accrescono col tempo senza ch’ella perda né fascino né leggerezza. E ciascuno, durante il viaggio, muterà nome e identità, trattandosi di un viaggio speciale, la cui ragione è l’arte, la sostanza la follia (Al punto in cui siamo, che cosa non è folle? domanda Oreste) e la meta la libertà.
In realtà la galleria di figure è assai vasta e si moltiplica a ogni pagina, con personaggi paradossali, come la Gitana, il lottatore Tesero, il circense Scarpa e l’uomo-uccello Basilio Argimón che impara a parlare con le rocce e trasvolando con la sua macchina sulla processione precipita perché, per distrazione, lascia i comandi e si fa il segno della croce.
Non saprei dire se la poetica di Conti sia ascrivibile al realismo magico che ha segnato profondamente la letteratura ispanoamericana, probabilmente sì, certo è che la cifra ironica della sua scrittura si accompagna a una ricchezza metaforica, dove le figure retoriche si accavallano restituendo al lettore una dimensione ipnotica, onirica che ha suggerito a qualcuno un parallelo con il cinema di Fellini, riferimento che a me pare azzeccatissimo, considerando il fatto che il romanzo, nella sua struggente bellezza, non ci regala alcuna trama, almeno nel “senso stretto” di sviluppo d’un plot narrativo; perché qui la storia, nonostante trattasi d’un romanzo di formazione, quella del protagonista Oreste, candidato principe e delfino d’un principe di dubbio blasone, non porta da nessuna parte; e tuttavia, una volta finita la lettura e chiuso il libro, la fantasmagoria di personaggi continua a parlarci dentro e ce ne stacchiamo con una dolorosa nostalgia, un senso di irrimediabile perdita, come se il viaggio di Oreste e dei suoi compagni fosse anche il nostro viaggio. Forse sarà perché – ci ricorda García Márquez - sappiamo come è andata a finire, in quel maledetto maggio del ’76, con il sequestro e la scomparsa dell’autore appena cinquantenne.
Probabilmente sì, sarà anche per questo, ma non solo; il romanzo vanta infatti una tale potenza evocativa e una tale suggestione poetica che spiazzano il lettore ad ogni paragrafo, sorprendendolo con una rutilante batteria di trovate, perché per Conti l’arte è come il circo per il Principe: lo concepiva soltanto in forma itinerante. Quanto meno, gli altri tipi di circo non lo interessavano. Anzi, il circo non era neanche la sua massima aspirazione perché, in fondo, quel che voleva era semplicemente esistere (p. 277); il circo è meraviglia. Quando funziona non è più lo stesso. La sua essenza sta nell’immediato, nella totale improvvisazione (p: 289) e l’arte è una cospirazione per natura (p. 307). Con un’avvertenza, che ci dice quanto lavoro ci sia dietro la meraviglia suscitata da questa prosa, e insieme richiama l’essenza della buona letteratura, quella che nutre il lettore e lo fa crescere: Finché, improvvisamente articolava una parola, una sola, giusta e precisa, sissignore, “la parola”. Poi ognuno se la sbucciava e la sezionava come un frutto e al suo interno avrebbe trovato il segno destinato a lui solo. A volte ci volevano anni per decifrarla, ma la strada era quella (p. 324).
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