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LIGURI PER SEMPRE. GENOVESI PER SEMPRE. LA LIGURIA E GENOVA PROTAGONISTE

Due antologie per chi nei liguri e nei genovesi vuole riconoscersi o per chi vuole capirli meglio




Curatore: Athena Barbera

Editore: Edizioni della Sera

Collana: Antologica

Anno edizione: 2021



Dalla fine di marzo è disponibile in tutte le librerie la nuova antologia "Liguri per sempre" che Edizioni della Sera ha deciso di dedicare alla terra di Liguria, dopo la precedente antologia "Genovesi per sempre" (Edizioni della Sera, 2019, prefazione di Laura Guglielmi) dedicata in particolar modo a Genova.

Come già fatto con la genovesità, questa nuova proposta, curata con amore ed attenzione dalla scrittrice ed editor Athena Barbera, vuole offrire un vero e proprio "viaggio emozionale" attraverso il territorio ligure, vuole prendere il lettore per mano e condurlo in tutti i luoghi, geografici e intimi, che fanno della Liguria la terra che è, con le sue caratteristiche uniche, con i suoi paesaggi straordinariamente belli e drammatici, con il mare e i monti, la luce abbagliante della costa e la penombra dei terrazzamenti tra gli ulivi.


Sono 22 i racconti racchiusi in questa antologia come in uno scrigno, ventidue autori che, ognuno a proprio modo, ognuno con il proprio sguardo e il proprio stile, hanno voluto interpretare l'emozione di essere liguri, sia di nascita che d'adozione. Ad introdurre a questo viaggio la prefazione dello scrittore genovese Bruno Morchio.



Questi sono due stralci dai racconti Il bar dell'allegria di Arianna Destito e Come volo di falena cieca di Antonella Grandicelli, inseriti nel volume Genovesi per sempre.


Il bar dell'allegria


Mia mamma è un'ansiosa cronica. È sempre agitata.

Al mattino, quando mi accompagna a scuola, impreca in spagnolo e mi strattona attraverso i vicoli, correndo perchè siamo sempre in ritardo. Quando usa lo spagnolo devo stare molto attenta a quello che rispondo, anzi, è meglio che stia zitta, perchè significa che è davvero molto arrabbiata. Sgrida tutti, persino il maestro, che a suo dire non vigila abbastanza cosicché torno sempre a casa piena di lividi. Lui risponde che giochiamo tutti insieme e può capitare di farci male.

Ma cosa volete, mia mamma è fatta così, è un po' stressata perchè lavora nelle case della gente per tutto il giorno, tutti i santi giorni, immersa nella loro sporcizia a scrostare il marcio di ogni famiglia. È ovvio che alla fine con qualcuno se la debba prendere. E io sono la sua prima valvola di sfogo. Anche perchè siamo io e lei. Lei e io. E nessun altro. Mio papà è tornato al suo paese, che poi è anche quello di mamma e neanche ricordo come si chiama perchè io sono nata a Genova, ma so che è dall'altra parte del mondo.

Per fortuna non è sempre così. Quando non lavora la mamma si trasfornma e diventa un'altra persona. È allegra. Ride persino. E capita spesso di uscire con le sue amiche, che io chiamo zie o nonne o cugine anche se in realtà non lo sono. Andiamo ai giochi del Porto Antico, al cinema o a qualche festa ai Giardini Luzzati, dove mi diverto un sacco perchè ci sono tanti bambini della mia età e ragazzi e ragazze che ci propongono tante belle attività, dai compiti ai giochi: li chiamano educatori. Io li chiamo tutti maestri così faccio prima.


Quando giriamo per strada mamma dice sempre di non allontanarmi da lei. E io credo d'essere brava e ubbidiente. Le sto vicino, sempre. Finchè non mi stufo e questo succede quando lei si ferma per ore davanti a una vetrina di abbigliamento o entra in un negozio dei cinesi, di quelli stile magazzino dove trovi tutto, proprio tutto, anche quello di cui non hai bisogno. A me non è che quei negozi non piacciano, a volte ci sono cose che mi attirano, ma insomma, dopo un po' provo un fastidio fisico, come un prurito che parte dai piedi e mi arriva alla testa e non ne posso più di girare per magliette leopardate e borse in similpelle borchiate e stivaletti a tronchetto con plateau e fibbie dorate, dall'inconfondibile odore di autentica plastica doc. Ecco.

È in quel preciso istante, mentre la osservo accumulare leggins, magliette e altro vestiario e andare verso il camerino di prova, che ho l'impressione che sia lei ad allontanarsi da me senza nemmeno accorgersene.


Io abito da sempre nei vicoli di Genova. Ho sei anni e non ricordo altri luoghi che non siano le strade della mia città. A parte quella volta che la mamma mi ha portato al suo paese dicendomi che era anche il mio.

"Questa è casa tua" affermò.

Vi immaginate? Casa mia un luogo mai visto prima, in un posto dal nome che non saprei neanche ripetere!

"C'è la pasta al pesto? chiesi curiosa e piena di speranza.

"No" fu la sua risposta.

"E allora questa è casa tua. La mia è lassù." dissi un aereo che passava in quel momento. Mamma ci rimase male, lo intuii dall'espressione del viso, e dal solito fatto che cominciò a imprecare in spagnolo ma sinceramente non capivo cosa avessi detto di male. È così buono il pesto!



Come volo di falena cieca


Come volo di falena cieca, il battito delle palpebre al risveglio le rivelò una realtà di geometrie sconosciute, a tratti abbagliate di luce, a tratti amputate, tranciate da scatti d’oscurità improvvisa. Anna alzò lo sguardo ancora velato su un cielo stretto tra due muri e riconobbe un azzurro inquieto di cirri e di gabbiani. Poi arrivarono l’angolo retto del vicolo, le stecche scolorite delle persiane, la sporgenza di gesso dell’edicola con la Madonnina. E il profumo di un mare invisibile che assecondava imprevedibili traiettorie per giungere fino a lei. Era seduta, rannicchiata a terra nell’incavo di un portone. Ed era a Genova.

A poco a poco, tutto le tornò alla mente.


Si ricordò del treno all’alba del giorno prima, scelta obbligata: un lavoro importante, un incontro decisivo, il ritardo non contemplabile e l’auto che non ne aveva voluto sapere di un altro viaggio. Così la corsa rapida alla stazione, la fretta nei respiri che si condensavano nell’aria fredda di un mattino ancora da venire. Era salita su un vagone vuoto, quasi sospinta da un buio spesso e ancora inviolato, accanto a sé la ventiquattrore e dentro lo spazio per un successo da portare indietro a tutti i costi. Seduta con la schiena rigida, sfiorando appena il sedile, i pensieri si comprimevano in un unico punto, un nocciolo duro, rappreso: il lavoro, le aspettative. Nel dondolio impercettibile, il sonno l’aveva tradita e la solitudine dei sedili intorno a lei si era fatta bozzolo, protezione, dolcissimo nulla. Aveva dormito, a lungo, senza sognare.

Poi il sonno si era spento e Anna aveva condotto lo sguardo verso il finestrino, senza muovere la testa, per non sembrare ancora troppo viva: il giorno si innalzava dalle brume di un mare guasto, sfrangiato in onde bianche che si spezzavano come ali d’uccelli in stormo. Non sembrava un giorno diverso, solo uno dei tanti, ordinati, messi in fila. Dal finestrino si abbozzavano appena sagome di case, orti, stretti alberi, altre case; il treno scheggiava l’aria al suo passaggio, gonfiava il silenzio, lo rendeva un boato invisibile e presto secco. Gli occhi ormai del tutto aperti, aveva riportato lo sguardo all’interno del vagone. In quell’istante l’aveva vista.


Una donna, teneva in mano un libro e guardava fuori mentre un pianto quieto le sollevava appena il petto. Doveva essere entrata in perfetto silenzio, senza nemmeno intaccare la luce. Aveva i capelli scuri, un viso di una bellezza violenta e inconsapevole, con occhi accesi di melograno e mani bianche dalle dita affusolate; la bocca pronunciava un sorriso lieve, indisciplinato, sotto le guance macchiate di lacrime. Piangeva di un pianto invisibile, senza scuotimenti, pallido e inarrestabile. Il libro appoggiato a sé, quasi con forza, come fosse un relitto a cui avvinghiarsi. Guardarla le era parso subito avere un qualcosa di sacrilego, un’impudica intromissione in un dolore privato, intimo. Ma si era accorta di non riuscire a distogliere lo sguardo, si sentiva come soggiogata da quella tristezza tagliata in due dalla sfida di un sorriso. Piangeva forse per amore, o per aver perso un amico, un fratello, un padre? L’aveva vista riaprire il libro, lisciare la pagina con una mano, aveva visto una lacrima caderle su quella pagina, probabilmente macchiarla, senza che lei mostrasse imbarazzo o disappunto.


Il treno aveva rallentato all’improvviso, si era fermato. La porta del vagone si era aperta. Una zingara era avanzata nel corridoio, ignorando la donna che piangeva e andando dritta verso di lei. Aveva oltrepassato tutti i sedili vuoti, senza nemmeno degnarli di uno sguardo, ed era andata a sedersi esattamente di fronte ad Anna con un tintinnio di gonne azzurre, rosse, viola e un sorriso lacero e beffardo di cuoio rovinato. D’istinto aveva tirato a sé la ventiquattrore, tenendola stretta per la maniglia. La zingara l’aveva guardata fare quel gesto, ma nei suoi occhi nulla si era mosso, nulla si era infiammato, nemmeno il fastidio, la sfida, lo sprezzo arrogante, mentre le narici di Anna fremevano all’odore acido di sudore vecchio che violava l’aria tra di loro. Si era voltata, per non guardarla, per difendersi.


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