Sono tornata in questa città dopo quasi due anni. Quasi due anni senza vita, quasi due anni persi, nascosti dietro le paure, annullati da mascherine e occhiali da sole. Quasi due anni senza identità, senza amici, quasi due anni senza aria. Firenze mi accoglie senza alcun fremito, come se non fosse successo niente, come se le frotte di turisti non fossero improvvisamente scomparse e le sue vecchie pietre non fossero state ricoperte a lungo dalla patina della noncuranza. Il sole è pieno e caldo come a luglio, anche se ormai l'autunno comincia a colorare le cose e le persone con la sua doratura. La pavimentazione del centro mi fa come sempre traballare sui tacchi e gli odori del cibo riempiono le stradine che portano nomi antichi.
Sono sola, giro senza meta, mi guardo intorno con occhi nuovi, o forse è la città ad aver cambiato vestito.
Mi fermo in un bar, uno di quelli che spacciano aperitivi annacquati ai turisti per cifre spropositate, e guardo in alto, guardo il duomo che insieme al battistero splende al tramonto.
Ho l'aria riposata e un abito elegante, immagino di sembrare felice.
E aspetto. Come due anni fa
aspettavo il mio tempo, che sembrava non venire mai. Aspettavo e lasciavo cadere per strada le parole come se fossero un sentiero da seguire, parole abbandonate sull'asfalto rovente che pian piano le liquefaceva, fino a quando di esse non rimaneva nemmeno un'eco indistinta.
Parole inutili, che componevano domande che rimanevano senza risposte.
Quasi due anni fa, una vita fa.
Era l'una di notte di un martedì, me lo ricordo perché i locali erano quasi tutti chiusi, ma sarebbe potuta essere un'ora qualsiasi di un giorno qualsiasi.
E lui sarebbe potuto essere chiunque.
Quell'uomo sopra di me, col respiro affannoso e la faccia nascosta nell'incavo della mia spalla, in quel segmento preciso del mio tempo, non aveva identità. L'unica cosa che contava, in quel segmento preciso del mio tempo, era il piacere che i suoi movimenti riuscivano a darmi, era la percezione del significato di esistere, lì e in quel momento, a respirare all'unisono con un altro essere umano, a contare
i battiti impazziti di entrambi.
Invece era lui, sempre lui, che appariva e scompariva a suo piacimento, insensibile ai miei bisogni e avaro di parole, di aggettivi, di verbi, soprattutto avaro di congiunzioni. Avrei voluto che con me si sentisse a casa, desideravo che entrambi potessimo trovare nell'altro la propria parte mancante. Troppo sentimentale? Forse. Ma vera.
Smettere. Smettere di pensare, smettere di pensare a lui. Smettere di farlo. In due anni ci ero riuscita, o così sembrava. Firenze invece aveva riavviato il nastro e tutto era ricominciato.
Forse l'amore non ha niente a che fare con i corpi, o forse è solo il loro linguaggio, senza farsi troppe domande e soprattutto senza pretendere troppe risposte. Bravo chi ci riesce, bravo chi è sempre riuscito a schivarlo, bravi tutti quelli che si vantano di non esserne mai stati catturati, masticati e sputati. Ma le pietre non sono mai uguali a se stesse, cambiano, si consumano, si opacizzano come le persone. Nello scorrere del tempo ognuno ha il suo ritmo, c'è chi preferisce i tempi lenti e chi quelli veloci e spesso lo scorrere non coincide con il proprio ritmo. Il mio tempo scorreva da sempre lento, così lento da poterlo quasi precedere per spronarlo a raggiungermi, in un enorme labirinto dal quale non riuscivo a venir fuori, un sudario troppo pesante da scostare.
L'autunno porta malinconia, fa cadere le certezze come foglie morte, riesce a far venire a galla le fragilità sulle pozzanghere delle prime piogge. Io ero immobile, osservavo il cambio delle stagioni senza poter fare nulla, guardavo lo scorrere della vita degli altri, e mi sembravano tutti più felici.
Aspettavo e aspetto ancora, vicino a un binario morto, senza treni e senza viaggiatori, senza limiti all'orizzonte. Non si saprà mai se questo ha senso ma nell'attesa è sempre presente una speranza ottusa, una totale mancanza di disincanto che mi farà trovare il mio spazio e il mio tempo. Nonostante tutto.
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