di Massimo Ansaldo
Una polpiera tutta mia.
Un desiderio che fa scoppiare il cuore, quando l’hai vista usare solo dai ragazzi più grandi di te, e neppure sai come si maneggia con maestria. Non ti rimane che continuare a sognare di trovarne una abbandonata sugli scogli, magari rimasta incagliata tra muscoli e alghe. Tuo padre non vuole aiutarti a costruirla, preferisce uscire la sera e andare a giocare alle maledette boccette, così odiate da tua madre, al punto che tu credevi fossero riempite per forza di brandy. Sennò perché tornava a casa sempre ubriaco?
Giovanni si era lasciato andare ai ricordi, vivi e freschi come le bolle della schiuma infranta sugli scogli del molo.
Il tempo era volato via come fa un gabbiano alla vista di un cormorano e ora di anni ne aveva quindici, stava sbocciando verso la landa misteriosa della maturità. In testa tanta confusione, rabbia, disagio e forse speranza.
Sapeva che i polpi erano intelligenti, ma non abbastanza per lui, diventato nel frattempo provetto pescatore.
Alla fine aveva ottenuto la sua polpiera, se l’era costruita da solo, con sughero, ami ritorti, fil di ferro e straccetto bianco. Quante ne aveva fatte da allora. Ognuna un tranello per i polpi, ognuna strumento di una sfida con l’animale che rappresentava, nel suo immaginario, l’avversario da abbattere.
I polpi erano buoni da mangiare, sua madre li cucinava da dio, null’altro che questo. La dimostrazione che natura mangia natura, in un ciclo continuo di vita e di morte, dove la morte di un essere vivente nutre quello rimasto in vita, il vincitore della infinita battaglia per la sopravvivenza.
Era una serata dove l’aria frizzante della primavera ti caricava di un'energia sovrabbondante, capace di farti vivere cose mai provate prima.
Oppure capace di farle accadere quelle cose, inusitate, che ti chiedevi se potessero appartenere al mondo del sogno e della fantasia, non a quello della realtà.
Il molo era prospiciente ad una villa sontuosa, le linee eleganti della struttura architettonica fatte per essere ammirate e invidiate.
Era tutta bianca, pitturata con la calce, ricordava vagamente una costruzione tipica del sud del Mediterraneo, linee severe, ma allo stesso tempo gentili, sembrava invitarti ad entrare.
Giovanni ogni volta che passava davanti al portone sbirciava per vedere se ci fosse qualcuno, allungava il collo verso le finestre aperte, ma oscurate da enormi tendoni anche loro bianchi. Come le altre volte non aveva visto nessuno al suo interno e la cosa lo lasciava indifferente, aveva da pensare ai suoi polpi e alla sua battaglia.
Non gli era mai importato chi vivesse nella villa, ma oggi qualcosa sarebbe cambiato e per sempre.
Saltellava sugli scogli con l’agilità di uno stambecco di montagna, evitava gli spuntoni pericolosi, trovava sempre un punto dove il piede afferrava la roccia come un mastice potente. Poi si accucciava, svolgeva la polpiera e cominciava a calarla con delicatezza poco sotto il livello della superficie del mare, facendola sparire negli anfratti bui tra gli scogli. Scorgeva solo la pezzuola bianca che sembrava danzare con passi ammalianti e seducenti. Sapeva che all’ora del tramonto i polpi amavano avventurarsi fuori dalla tana e lui voleva coglierli curiosi e bramosi proprio nell’istante di apparente e definitiva vulnerabilità. Non esiste pesca senza pazienza, gli ripeteva il nonno. Lui era d’accordo anche nel ritenere che rischiava di annoiarsi a fissare il frangere delle onde sugli scogli che gli provocava una sorta di ipnotica sospensione dei sensi. Quel giorno,però, qualcosa lo aveva scosso,poco più di un riflesso proveniente dalla villa, un lampo di luce che violentava la monotonia del bianco totalizzante. Un riflesso e un’ombra. Una sagoma umana che era subito scomparsa dietro le tende. Finalmente, aveva pensato Giovanni, un segno di vita, una presenza e non importa se, a prima vista, sembrava qualcuno che spiasse, non troppo socievole. Ne aveva avuto prova poco dopo.
Un’altra ombra, questa volta dietro la vetrata del terrazzo grande, seguita dalla fuga al sicuro dietro l’enorme tendaggio.
Giovanni cominciava ad innervosirsi, non gli piaceva proprio il gioco del nascondino fatto in quella maniera.
Aveva recuperato la polpiera e si era alzato ritto, facendo scudo agli occhi con la mano tesa. Voleva vedere meglio, scovare l’intruso.
Già, perché quella presenza aveva alterato il mirabile equilibrio tra lui e i polpi, un granello di sabbia dentro un congegno perfetto.
Aveva deciso di verificare da vicino, saltellava sugli scogli con abilità e maestria, da distante poteva essere scambiato per una creatura marina sconosciuta e miracolosa.
Arrivato alla cancellata, le mani che stringevano l’inferriata, urlava contro qualcuno, anche se non era sicuro che esistesse.
- Esci fuori! Fatti vedere! Che cosa hai da spiare? Mi hai spaventato i polpi! E ora?
Sapeva che i polpi neppure si erano accorti della presenza misteriosa, che era lui e solo lui ad aver fatto una tremenda cagnara, ma era sempre meglio dare la colpa a qualcun altro,lo aveva imparato da suo padre.
Si sentiva invaso da un formidabile coraggio, avrebbe potuto sconfiggere qualsiasi nemico, quella figura dalle fattezze indefinite aveva risvegliato in lui una determinazione prima di allora sconosciuta.
Aveva scavalcato il cancello, sicuro di scovare l’indesiderato.
La porta di ingresso della villa era socchiusa, la testa di Giovanni aveva fatto capolino dentro l’ampio salone avvolto in una penombra diffusa.
Gli sembrava di sentire tintinnare qualcosa, prima lentamente, poi con una cadenza più veloce, regolare. Potevano essere dei passi, ma di una persona che cammina con scarpe chiodate.
Era diventato inquieto, forse non era stata una buona idea introdursi in una casa altrui, senza sapere chi avrebbe potuto incontrare.
Stava per tornare indietro, quando una voce, articolata in frasi lente, timide e timorose lo aveva raggiunto.
- Sei bravo a saltellare sugli scogli…dove hai imparato?
La voce usciva da un corpo nascosto dietro il tendone gigantesco, Giovanni vedeva solo il busto e una faccia, i cui contorni sembravano appartenere ad un ragazzo della sua età. Era indeciso se mettersi a conversare, continuava ad avere paura della situazione in cui si era cacciato.
Poi aveva preso coraggio e ritrovato la sua solita spavalderia.
- Beh! Non si impara di certo… spiando… coperto da una tenda…
- Non stavo spiando… stavo osservando…
- Sei bravo con le parole tu… sai che ti dico? Esci e fammi vedere come sei capace a saltellare tu… che parli tanto!
La tenda si era aperta come il sipario di un palcoscenico, ma lo spettacolo non era di quelli che avrebbero affascinato gli spettatori.
L’unico spettatore era Giovanni che inorridì alla vista di un ragazzo della sua età che al posto delle gambe e dei piedi aveva due strutture metalliche che cigolavano sinistre ad ogni piccolo movimento. Era malfermo, appoggiandosi a due grucce che sembravano troppo grandi per la sua stazza. Giovanni voleva scappare, urlare e chiamare aiuto. Dove era capitato? In una fabbrica degli orrori? Era questo l’inferno che sua nonna gli raccomandava di fuggire come il peggiore dei mali? Altre parole lo raggiunsero. - Le stampelle le posso lasciare… guarda… Con un gesto plateale il ragazzo le aveva lanciate a terra, rimanendo aggrappato ad un equilibrio precario. Giovanni era incerto ma sentiva che la tensione, come era salita, ora stava scemando verso un leggero stato di allerta. - Come ti chiami? - Massimo… - Non ti avevo mai visto… non vai a scuola… non esci mai? Giovanni si era pentito di aver formulato una domanda così secca e decisa, forse sua nonna lo avrebbe rimproverato per la sua maleducazione. - Abito qui da un paio di mesi… i miei genitori hanno detto che appena possibile mi trasferisco nella nuova scuola… veniamo da Milano, la casa era dei miei nonni…
Giovanni era un ragazzo timido e introverso, non riusciva mai a prolungare una conversazione oltre poche parole, che lui considerava sufficienti a definire il perimetro di quella che considerava una minima relazione umana.
Fosse stato per lui la cosa sarebbe finita lì, uscito dalla villa non ci sarebbero state altre occasioni, quella era l’unica e irripetibile. Per fortuna.
Massimo, invece, era un tipo gioviale, curioso, poco disponibile ad accontentarsi delle relazioni superficiali, la sua condizione fisica aveva agevolato un'attenzione alla cura dei particolari, anche nella relazione con le altre persone. Aggrapparsi all’essenziale era diventato il suo faro per orientarsi dentro una società che rifiutava chi contraddiceva la ‘perfezione’.
E la sua inabilità era un pugno in faccia al perbenismo da tanto al mucchio.
- Dove hai imparato a saltellare sugli scogli?
Ora quella domanda aveva un sapore diverso, una tensione inaspettata. Doveva rispondere, ma stare attento a non offendere Massimo, aveva pronunciato mentalmente quel nome nuovo capitato per caso nella sua esistenza. Per caso?
- Fin da piccolo… venivo con mio padre… prima che lui…
- Prima che lui?
Come al solito, Giovanni si era pentito di non saper calibrare le parole, o diceva poco, oppure troppo, mai riusciva a collegare il cervello alla lingua, gli ripeteva la nonna.
- Prima che lui… non l’ho più visto… scomparso, mi ha lasciato con la mamma…
Che strano. Giovanni pensava che la confidenza non fosse fuori luogo, gli sembrava naturale che quella confessione potesse essere fatta proprio in quel luogo, a quella persona, a Massimo. Ad una persona mai vista e incontrata solo dieci minuti prima.
-Io… i genitori naturali non li ho mai conosciuti… sono stato adottato… quelli nuovi mi vogliono bene, certo… ma dimmi potresti insegnarmi?
- Insegnarti a fare cosa, scusa?
Giovanni era interdetto, lo spavento provato prima tornava prepotente e diffuso dentro tutte le viscere.
- A saltellare sugli scogli…
- Ascolta… non credo che tu possa…
- Ho visto che peschi con una polpiera… vero?
- Sì… ma che c’entra? Tu mi hai chiesto di insegnarti a…
- Avresti voglia di portarmi giù al molo? Non devi reggermi, solo starmi vicino, se vado fuoribolla… Avevano camminato fianco a fianco sulla spiaggia fino alla scogliera. Giovanni non era intervenuto per aiutare Massimo, le stampelle erano state sufficienti a tenerlo in equilibrio, ma non sarebbero state utili una volta raggiunti gli scogli.
- Ora prendimi in braccio e siedimi su uno scoglio davanti al mare… puoi farcela, credimi… Giovanni era invece convinto di non farcela, quando giocava con i suoi amici non era mai riuscito a sollevare quelli della sua corporatura e Massimo lo era, a prima vista aveva lo stesso peso.
- Provaci… dai!
Massimo era persuasivo, Giovanni doveva riconoscerlo, era facile dargli ragione, ti convinceva oltre le parole che pronunciava.
All’inizio Giovanni non sapeva dove mettere le mani per afferrare il corpo mutilato di Massimo. Invece era riuscito a sollevarlo con estrema facilità, sembrava pesasse meno di quello che avrebbe dovuto. - Sembra che l’aria di mare ti sollevi da terra… Giovanni era incantato da quanto stava facendo, Massimo gli aveva messo un braccio intorno al collo e la mano stretta sulla spalla. Un momento di intensa e inaspettata intimità,sembrava si fossero conosciuti da sempre. - Ecco…qui, siedimi qui, con le protesi in acqua, voglio pensare ai piedi rinfrescati dall’acqua, le dita accarezzate dalla corrente, i pesci che solleticano la pelle… Giovanni era estasiato dall’esperienza che stava vivendo, si era persino dimenticato dei polpi e della polpiera, ora le sue emozioni erano rivolte ad altro. - Guarda! I pesci sono incuriositi dai riflessi del metallo… sembrano ipnotizzati. Metallo, sole del tramonto, acqua di mare…che combinazione fantastica! Non credi! - Sì… Giovanni non era abituato a godere delle cose semplici e si stupiva come fosse possibile che accadesse ad un ragazzo ricco che abitava in una villa invidiata da tutti, menomato per tutta la vita. Qualcosa non gli tornava. Avrebbe avuto un buon motivo per recriminare, essere incazzato con il mondo, con la sfiga.
L’idea gli venne lì per lì, forse accarezzando involontariamente la polpiera che gli spuntava dalla tasca dei jeans.
- Spostati leggermente a destra. Sì, così, metti le tue gambe… vicine a quei due scogli, che
dondolino nel buio… vedrai…
Il punto, che lui conosceva bene, dove c’erano le tane dei polpi, venne illuminato dai lampi di luce emessi dal metallo.
- Meglio… molto meglio della pezzuola bianca… per attirarli…
Giovanni si era dimenticato della virtù della pazienza, entrambi fissavano la pozza nera in fondo al mare, in attesa che prendesse vita.
Il primo polpo allungò timido un tentacolo, come per accertarsi quale fosse la consistenza della nuova preda, poi abbandonata ogni ritrosia si era lanciato in un attacco proditorio, impegnando tutto l’arsenale di ventose che poteva usare. Si era avviluppato al metallo, confondendosi con esso. Nel frattempo arrivavano gli altri, danzando eleganti come provetti ballerini dell’Opera. Tutti quanti finivano le loro magiche circonvoluzioni accarezzando il metallo delle protesi di Massimo.
Giovanni era impressionato. Non aveva mai visto tanti polpi e tutti insieme.
Le gambe metalliche gonfiavano a dismisura, erano diventate due palloni pullulanti e viventi.
Giovanni e Massimo assistevano allo spettacolo muti e storditi da tanta misteriosa magnificenza.
- Guarda… cominciano a risalire gli scogli…
- Incredibile…
Con un certo tremore i due ragazzi osservavano il fenomeno.
I polpi stavano uscendo dall’acqua, pur rimanendo aggrappati alle protesi di Massimo, con il
risultato che anche lui veniva lentamente trasportato verso gli scogli.
- Aiutami! Mettimi in piedi…
Giovanni non capiva, era attonito e assorbito dentro una dimensione irreale.
Aveva sollevato Massimo.
- Ora lasciami…
- Ma che dici! Cadi se…
Invece Massimo non era caduto, camminava sugli scogli. Senza stampelle, riusciva ad articolare i passi seguendo l’incedere dei polpi. Rimaneva in equilibrio, portato in trionfo da centinaia di piccole e portentose ventose.
- Cammino sugli scogli!
Giovanni si era seduto prostrato dalle emozioni troppo forti. Non sapeva se ridere o piangere o fuggire via lontano. Si dibatteva tra la gioia e lo sconcerto, tra la commozione e lo spavento. Che cosa stava accadendo?
Massimo continuava a stare ritto sulle protesi aiutato dai polpi che lo tenevano sollevato e in
equilibrio, esultava con le mani alzate, gli occhi umidi dalla commozione.
La passeggiata era durata una decina di minuti.
Poi i polpi avevano cominciato a riprendere la via verso il mare, nel posto dove Massimo aveva immerso le protesi. Lentamente, con mosse che sembravano studiate apposta per fare in modo che il ragazzo tornasse a sedersi senza inciampare, cominciavano a tornare tra le acque scure e profonde.
Si erano accomiatati come fanno gli ospiti gentili ad una festa riuscita bene. Con garbo, in silenzio e grati dell’invito.
Giovanni e Massimo erano rimasti seduti, muti come i pesci sotto di loro, ogni parola e
spiegazione avrebbe infranto la magia viva che si era impossessata del loro essere.
Era scesa la sera, il buio non faceva distinguere le facce, ma era come se si vedessero
ugualmente, uniti da qualcosa di più profondo delle capacità sensoriali che ognuno di loro poteva esprimere.
Poi Massimo aveva parlato.
- Non avrò saltellato, però camminare sugli scogli è stato fantastico… credi sia accaduto
veramente?
Giovanni tastava la polpiera dentro la tasca dei jeans, gli sembrava di vedere tra i riflessi della luna sulla superficie del mare mille occhietti che lo stavano fissando. Erano sorrisi quelli che luccicavano nel buio.
- Sì, è accaduto. Vieni ti porto a casa, amico mio.
Massimo Ansaldo è nato a Varazze ( Sv ) nel 1959 e vive a La Spezia, dove esercita la professione di avvocato.
Nel 2014 ha pubblicato il noir Macerie (Leucotea) e nel 2016 Il segno del Sale (Leucotea). Pubblica nel 2020 il romanzo Qualcosa da tacere (Fratelli Frilli Editore) e nel 2022 I delitti di Genova (Fratelli Frilli Editore).
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