di Eugenio Ercolani
Abbiamo ricevuto questo intenso racconto che ci ha colpito per la scrittura precisa e coinvolgente e per la giusta misura nel narrare avvenimenti storici e questioni personali senza mai cadere nella retorica. Una testimonianza importante che The Melting Pop è grata di pubblicare e di condividere con i suoi lettori per celebrare il 25 aprile. La Festa della Liberazione dal nazifascismo.
2019
Ultimamente mi sono un po’ impigrito. Poca voglia di fare, di muovermi, di conversare. Non credo che dipenda dalla cura radioterapica in sé, (cancro alla prostata, quaranta sedute in otto settimane),quanto dallo stress causato dalla ripetitività degli eventi: andata di 35 km in macchina, fare pipì, bere mezza bottiglia di acqua minerale, aspettare che ti chiamino, applicazione, ritorno (altri 35 km in macchina), e così via. Tutte le mattine, salvo sabato e domenica. A cura ultimata, per distrarmi, un paio di mesi fa ho riaperto la scatola magica: La scatola di latta di mamma. Era una scatola di latta smaltata rossa, con impressa in blu in alto la dicitura Industria nazionale dei caffè surrogati, e al centro la riproduzione di un macinacaffè a manovella. Per eventuali e improbabili giovani lettori chiarisco che il caffè surrogato era un miscuglio di cicoria, orzo, carcadè ed altre erbe amare che si tostavano e si macinavano poco prima di fare il caffè. Le famiglie distinguevano il caffè dal caffè-caffè (quello vero, costoso e difficile da trovare; una volta cascarono in terra dei chicchi durante un travaso, ed eravamo in tre a raccoglierli, carponi), e tenevano in cucina due distinte caffettiere, per non mescolare la bontà con la schifezza. C’era impressa anche la data, Aprile 1942 XX E.F., che forse dovrei spiegare anche a qualche adulto. Mamma manteneva in quella scatola i suoi ricordi: foto di amici e parenti, santini dei defunti con necrologio, le partecipazioni di matrimoni, cresime e battesimi, qualche bottone caduto da un cappotto che era prudente conservare, non si sa mai, se si perde poi chi lo trova uno uguale…. (l’ipotesi di ricomprarne eventualmente altri 3 o 4 nuovi era impensabile).
In quella scatola trovai un biglietto dattiloscritto, mezza pagina per risparmiare carta, impresso avanti e dietro. Una carta grigiastra di pessima qualità, tanto scadente che su una facciata traspariva anche il dattiloscritto dell’altra. Il fronte diceva:
Roma 2 Novembre 1946 24 EF MINISTERO DELLE COMNICAZIONI OPERA NAZIONALE DI PREVIDENZA DELLE FERROVIE DELLO STATO
Gentile Signora T. C. vedova Ercolani La visita medica subita da vostro suo figlio Eugenio ebbe esito favorevole per cui vi la interessiamo ad accompagnarlo nell’Istituto per figli di ferrovieri di CALCI (Pr.cia di Pisa) ove verrà accolto su presentazione dell’unita credenziale e dei documenti indicativi ele Qui unito rimette anche un biglietto di viaggio occorrente. Per recarvi a CALCI dovrete à discendere alla stazione di Pisa e colà rivolgervi a quel Capo stazione per ottenere il rilascio dei biglietti gratuiti sulla tranvia elettrica Pisa-Calci. A suo tempo vorrete poi informarci dell’avvenuto ricovero. IL PRESIDENTE ( Le sostituzioni dal Voi al Lei erano fatte con un tratto di penna, e sopra erano scritte, sempre a penna, le correzioni.)
ll retro:
Mio adorato figliuolo Ecco che inizio il mio viaggio di ritorno a Roma sola! Ti ho dovuto lasciare, proprio te che più degli altri avevi bisogno di essermi vicino, perché il più piccino! Ma è per il tuo bene, per far essere un po’ più tranquilla finanziariamente la tua mamma, che si trova in un periodo non troppo fiorente per le condizioni economiche. Ma sento che il Signore in qualche modo mi aiuterà e mi permetterà che io possa richiamarti a casa quanto prima. Tu non leggerai no la presente, sarebbe un aumentare quel peso che mi è parso di vedere nel tuo cuoricino. Forse un giorno, più grande e felice ti farò leggere queste righe che ti diranno e riveleranno tutto lo strazio e le lacrime della tua mamma. Iddio ti benedica, Pisa 10.11.46
Con tutto il mio amore, Mamma tua
Il foglio era macchiato da cerchietti bianchi scoloriti, le sue lacrime sulla lettera che mi stava scrivendo seduta su una panchina della Stazione di Pisa. Ma come siamo arrivati a questo punto? Facciamo un passo indietro, come si diceva nei romanzi di appendice. Anche se questo non lo è, purtroppo.
1943
Il 19 luglio, bombardamento di S. Lorenzo, a due chilometri dalla nostra casa ubicata in Via La Spezia, zona S.Giovanni. Si sapeva del bombardamento imminente (radio fante,) e noi eravamo addossati alla parete frontale della Basilica fin dalla prima mattina. Si diceva che gli alleati non l’avrebbero bombardata per rispettare il Vaticano. Verso le 10 vedemmo arrivare una serie di bombardieri; cominciarono a sganciare. Noi vedevamo dei puntini neri uscire dalle pance degli aerei, a grappoli. Si vedevano per qualche secondo, poi prendevano velocità e non si vedevano più. Però se ne vedevamo gli effetti: grandi fumate nere elevarsi sulla zona bombardata, la terra che tremava sotto i nostri piedi. Non ricordo quanto durò, ma noi attendemmo un paio d’ore prima di tornare a casa. E qui la sorpresa: un polverone dappertutto, il cortile centrale trasformato in una enorme voragine che iniziava dalle pareti delle facciate (erano tre palazzi messi ad U) e sprofondava in un enorme imbuto. Salimmo a casa: tutti i vetri delle finestre scoppiati, una grande scheggia, detta spezzone, aveva tagliato a metà il davanzale di una finestra. Lei, la scheggiona, giaceva sul pavimento dopo aver schiantato una specchiera appesa alla parete prospiciente la finestra dimezzata, e ormai innocua. Qualcuno degli aerei alleati sulla via del rientro aveva sganciato lì un paio di bombe per alleggerirsi del peso, ormai inutile. Una era entrata nel nostro cortile, perforando i tetti degli ultimi due piani.
A metà pomeriggio rientrò a casa nostro padre, bianco in faccia come un lenzuolo. Lui era ferroviere, e durante il bombardamento stava lavorando allo Scalo S. Lorenzo, a 500 metri dalla zona bombardata. Ci raccontò come era andata, si sentiva il fischio delle bombe in arrivo e poi le esplosioni assordanti. Le pareti e il pavimento tremavano, tutte le finestre erano volate via. Non avevano un rifugio, non erano stati esentati dal servizio perché lo scalo doveva restare operativo. Aspettavano solo la bomba giusta. Che per fortuna non arrivò. Quella sera andammo a dormire (sul pavimento con qualche coperta a fungere da materasso,) a casa di mia sorella Luciana, che aveva partorito Gianfranco quattro giorni prima. Io avevo cinque anni, vidi al bagno dei panni sporchi di sangue. Alle mie domande risposero che la cicogna che portava Gianfranco entrando dalla finestra si era ferita ed era stata medicata. Fantasia degli adulti.
Un inciso: Gianfranco ed io avevamo cinque anni di differenza; appena grandicelli eravamo diventati quasi coetanei, siamo stati sempre insieme combinandone di cotte e di crude. Quando lui a circa sei anni perse il primo dentino da latte il noto topolino gli fece trovare sotto al cuscino cinquanta lire e delle liquirizie (all’epoca uno stipendio era di cinquecento lire). Lui fece fuoco e fiamme pretendendo che quelle cinquanta lire fossero portate a me che ero in collegio a Calci, come sapete già. Questo gesto me lo sono ricordato per tutta la vita. Purtroppo lo dovetti ricordare anche al funerale di Gianfranco, che il famoso “brutto male” si è portato via qualche anno fa.
La situazione era critica, non sapevamo come fare. Per fortuna un nostro amico di famiglia, che faceva il dentista nel nostro palazzo, ci mise a disposizione una sua casa di campagna, in quel momento disabitata, situata in un borgo non lontano da Roma, chiamato Finocchio. Senza acqua corrente, ma con un fontanile distante circa un chilometro e senza arredamento tranne i letti. E così partimmo. Ma come? Non c’erano mezzi pubblici che raggiungessero quella zona. Allora i miei noleggiarono un carro a cavalli, che fu caricato da tutti noi (mamma – papà era rimasto a lavorare a S. Lorenzo, per imprescindibili motivi di servizio – due sorelle, un fratello e un cognato; l’altro era a fare la guerra; il neonato fonte di piagnistei e di un inesauribile carico di diarrea) e da tutte le vettovaglie che potemmo caricare. Quel carro sembrava tratto da una scena di un film neorealista: un materasso arrotolato con dentro un bottiglione d’olio, piatti e stoviglie in tutti gli angoli, due pentoloni e una padella che penzolavano dalle sponde alle quali erano legati con lo spago. Peccato, neanche una foto.
All’arrivo trovammo che il bottiglione col caldo e le scosse si era rotto e aveva perso tutto l’olio. L’evento fu accolto come una sciagura, mancarono solo i pianti. Ci fermammo lì un paio di giorni, il tempo di farmi venire delle grandi vesciche sulle spalle, provocate dal sole a cui mi esponevo nel tragitto casa-fontanile e il tempo di rimediare un mezzo che ci portasse a Filettino, (sempre previa una dormita in terra al paese chiamato Serrone), nelle montagne della Ciociaria, dove i miei possedevano una casa, e dove vivemmo tra freddo stenti e tedeschi occupanti per un paio di anni.
A proposito di tedeschi, ricordo una quindicina di uomini filettinesi “rastrellati” dai tedeschi e messi al muro in piazza con i mitra spianati perché presunti disertori. Ricordo distintamente gli aloni di urina sul davanti dei pantaloni di quasi tutti. Poi fortunatamente qualcuno fece arrivare una richiesta di soccorso a Graziani (nato a Filettino, che infatti allora si chiamava Filettino Graziani,) e questi fece arrivare un perentorio cablo al Comando tedesco con l’ordine tassativo di rilasciare i 15 arrestati, che potettero andare a casa a cambiarsi i pantaloni.
In quel periodo mi resi protagonista di un episodio del quale fui molto orgoglioso per mesi. Vidi un soldato tedesco in divisa che stava scavando una buca in un prato prospiciente casa mia. Finito di scavare, prese una borsa di tela blu, alquanto pesante, la calò nella fossa e la ricoprì di terra. Riconobbi la borsa, perché la chiusura avveniva con due ferri da calza piegati in forma circolare, la cui punta era coperta da una borchia. Questa si agganciava all’altra estremità del ferro consentendone la chiusura. Era di mia zia Iole. Il tedesco mi vide e mi fece un perentorio invito al silenzio, ponendo il suo dito indice dinanzi alle labbra. Aveva il fucile poggiato per terra ed io terrorizzato feci un cenno di assenso e mi allontanai. Per andare a casa della zia Iole, la quale mi disse piangendo che i soldati le avevano rubato un prosciutto intero. Corsi via e dopo mezz’ora tornai con la borsa con dentro il prosciutto che pesava quanto me. Zia mi abbracciò stretto ed io anni dopo capii che avevo partecipato alla Resistenza!
Finalmente la casa di Via La Spezia fu restaurata, e noi tornammo a Roma. La mia storia per il 1943 potrebbe finire qui. Ma voglio ricordare due terribili eventi: le leggi razziali proclamate da Mussolini, che iniziano con la frase: “Gli ebrei non sono di razza ariana” e il rastrellamento del ghetto del 16 ottobre 1943. In quel giorno e in altri successivi furono prelevati e spediti in Germania quasi 2000 ebrei. Su questi episodi non mi dilungo perché ne fui tenuto all’oscuro da parte dei miei genitori, e io mi sono ripromesso di parlare in questa sede solo di persone e di fatti a me noti direttamente. Ricordo però la parola col suo terribile ritmo ràs trél là mén tò, la cui cadenza richiamava quella degli scarponi dei soldati tedeschi, quando chiudevano le due estremità di una via o tutte le estremità delle vie che percorrevano un quartiere, per poi scaraventare fuori di casa gli occupanti ebrei.
E il negozio di abbigliamento Caviglia, situato a pochi metri da casa mia, il più elegante e ricercato di Via La Spezia. Un bel giorno lo vidi chiuso, e alla mia richiesta di motivazioni mia madre rispose bofonchiando delle parole dalle quali capii soltanto che non era il caso di parlarne. Infine, orrore nell’orrore, le denunce: i tedeschi o i fascisti, non ricordo, davano 5000 lire di premio a chi denunciava la presenza di un ebreo; ma non c’è limite alla bestialità umana: la ricompensa era ridotta a 2500 lire per la denuncia di una donna e a 1500 per quella di un bambino; dette denunce provenivano da semplici conoscenti ma soprattutto da amici, colleghi di lavoro e portieri di condomìni.
1946
Un episodio violento sconvolse la nostra famiglia a metà anno: la morte improvvisa di mio padre quando avevo meno di nove anni, investito da un camion inglese, probabile rimasuglio delle truppe di occupazione post bellica. Era il 23 giugno, si festeggiava
S.Giovanni (commemorato il successivo 24.) Noi abitavamo nel pieno del quartiere di S. Giovanni, le finestre della nostra casa affacciavano sulla citata Via La Spezia, uno stradone che porta dritto dritto alla basilica. Ricordo mia madre affacciata alla finestra, in attesa e nella speranza di veder spuntare papà. Dalla finestra aperta arrivavano gli schiamazzi della strada, trombette e pifferi, ogni tanto una banda musicale. La gente urlava, si divertiva e mangiava lumache nelle trattorie; gli schiamazzi erano, o sembravano, sempre più forti. Mamma non aveva il cuore di portarmi a letto e restare sola. Poi, alle due di notte arrivò la telefonata. Papà era all’obitorio dell’ospedale, naturalmente di S. Giovanni. Al mattino mi portarono lì, vidi mio padre supino come se dormisse, gli occhi chiusi. La ferita che gli aveva spaccato il cranio era sulla nuca, e non si vedeva. Aveva una mosca che gli passeggiava sul viso. Lui odiava le mosche e mi meravigliai di non vedere la sua mano che si alzava per scacciarla. Lo feci io, e sullo slancio gli feci una carezza. Mi meravigliai di non vederlo sorridermi. E di sentire la sua pelle fredda come il marmo su cui giaceva. Così conobbi la morte e capii di che si trattava.
Questo evento cambiò la mia vita da adolescente. Mia madre venne a sapere da un compagno di scuole di mio fratello, orfano di ferroviere, che da prima della guerra era stata creata l’Opera di Previdenza delle Ferrovie dello Stato. Questo istituto era alimentato da piccole trattenute fatte sullo stipendio dei ferrovieri. Le trattenute erano modeste, ma i ferrovieri erano cinquantamila. L’Opera di Previdenza ospitava orfani di ferrovieri, a titolo completamente gratuito purché il ragazzo fosse promosso a giugno. Mia madre, che era vedova di un ferroviere, prese informazioni, cercò di far ospitare mio fratello che aveva quasi tredici anni, ma la risposta fu negativa. La guerra era finita da un anno, gli orfani erano tanti, quindi l’Ente aveva messo dei filtri; fra questi l’età massima di 12 anni. E fu così che quella notte mamma mi scrisse quel biglietto di commiato seduta su una panchina della stazione di Pisa, in lacrime.
E così cominciarono i miei sei anni di esilio. Ma di questo periodo parlerò forse dopo una nuova radioterapia.
Riepilogo solo i fatti salienti: in collegio la disciplina era ferma ma non ferrea, le ore da dedicare allo studio erano tassativamente cinque. Il vitto decente, giusto da con-vitto. Nei primi due anni vigeva ancora la tessera annonaria, per la quale venivano assegnati 100 grammi di pane al giorno a persona. Per ognuno dei tre pasti ci davano una fettina di pane quasi trasparente, che noi chiamavamo ”l’ostia”. Nei campi riconoscevamo le erbe commestibili. I fiori delle acacie erano dolci. Vivevamo in piccole città (Calci, Tirrenia, Senigallia) e andavamo in scuole statali con classi di soli 15 alunni, dove eravamo seguiti dagli insegnanti fin nelle minuzie scolastiche e personali.
Da questo periodo sono uscito temprato nel carattere e con un’ottima preparazione scolastica, e su queste doti ho impostato la mia vita da adulto.
Sono grato alle Ferrovie e al Corpo dei ferrovieri, che si prodigarono in tutti i campi e in tutti i sensi.
PS: mi piacerebbe che queste poche pagine venissero lette da qualcuno di quei ragazzi che vanno alle manifestazioni con il braccio alzato, senza sapere che vuol dire. Perché riflettano sul fatto che i governi forti finiscono sempre in una dittatura. E poi in guerre con milioni di morti, di orfani, di vedove e migliaia di città distrutte. In nome di una gloria scritta sull’acqua.
redazione@themeltingpop.com
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