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Immagine del redattoreRedazione TheMeltinPop

La figlia cattiva


Foto di congerdesign da Pixabay


di Clara Negro


Sento che ti lamenti. Sono in cucina che spignatto e sento che ti lamenti. Non smetti mai. Non hai mai smesso, sono anni che lo fai, non riesco a ricordare neppure quando tu abbia cominciato.


Avevo cinque anni, e tu, seduta di fronte alla finestra a cucire, piangevi. Piangevi e la nonna era in piedi a stirare. Parlavi di papà, che non c’era, non c’era mai, parlavi del bar, degli amici, dei soldi che buttava a carte. La nonna smetteva di stirare e ti veniva vicino. “Te l’avevo detto io che non era uno da sposare. Un morto di fame, te lo ricordi o no quando l’hai conosciuto? Te lo ricordi che aveva il cappotto fatto con le coperte delle ferrovie?”

E io pensavo alla mia coperta, quella con gli orsetti e i bambi, volevo chiederti se me lo facevi anche a me il cappotto con gli orsetti e i bambi, che mi sarebbe piaciuto più del cappottino blu, con il colletto che mi raschiava la gola e quegi stupidi bottoni dorati. Non sono mica un carabiniere, pensavo. Ma poi non dicevo nulla, magari tu avresti pianto, che a te i cappotti fatti con le coperte mica ti piacevano.


Sento che ti lamenti mentre sono in camera che rifaccio i letti. Stanotte l’hai bagnato, nonostante il pannolone, e ora mi tocca cambiarlo, come ieri, come due giorni fa. Come succede di solito.

“Mamma!!!” chiami.

Vorrei urlare. Io non sono tua madre. Qui la madre saresti tu.

Non l’hai mai fatta tu la madre. Io l’ho sempre fatta. Da quando ne avevo dodici di anni. Ho cominciato quando ancora non sapevo di essere figlia.


“Tu ci starai sempre con me vero? Tu non mi lascerai sola?”

E io ti rassicuravo. Certo, dicevo, sta tranquilla. Ma mica ti calmavi, e allora piangevo anch’io perché così tu ci credevi che non ti avrei abbandonato. E asciugavi le tue e le mie lacrime.


Ne ho sessantacinque oggi di anni.

“Mamma!!” chiami.

Ti trovo con i ferri da maglia in mano e la lana attorcigliata alle dita.

“Mi sono caduti i punti.”

Resto a guardarti: ti tremano le mani, i punti lasciano spazi vuoti nella maglia, vuoti come le ore che passo qui, seduta sul divano accanto a te.

Perché non metti gli occhiali? ti chiedo. Ci vedo lo stesso, rispondi, e sento che sei seccata, poi mi passi il lavoro perché rimedi ai tuoi errori.

Io odio lavorare a maglia, odio ricamare e odio cucire. E tu vorresti che facessi proprio queste cose, le uniche cose importanti per te.


Tu hai sempre cucito, cucivi vestiti insieme alla tua vita, con le tue mani ne hai disegnato il percorso, intessuto la trama e scelto i colori, china sulla tua Singer. Non sarà che adesso non ti piacciono più quei colori, non ti piace il modello che hai scelto, né il tessuto? Magari non ti sono mai piaciuti. Per questo sei così incazzata.

Ieri, senza una ragione, mi hai gridato in faccia che ne hai detti troppi di sì, tu.

“È venuta l’ora dei no.” Hai detto e mi hai lasciato senza parole. Io che di parole ne trovo sempre.


Domani sono due anni che vivi con me. Due anni. Settecentotrenta giorni. Diciassettemilacinquecentoventi ore.

E io mi sento come un cane alla catena.

“È perché ti voglio troppo bene che vorrei stessi sempre con me.”

Eh, no mamma. Non funziona mica così. Funziona che se ami una persona vuoi quello che vuole lei, funziona che se lei è felice a mille miliardi di anni luce da te, a te va bene uguale. Sei felice perché lei è felice. Ecco come funziona, hai capito?


Eravamo andati al mare io e gli amici di sempre. Non ce l’avevamo la macchina a quei tempi, e per andare a Vesima c’era il treno o la corriera. E il treno l’avevamo perso. Siamo corsi dietro la corriera, gli asciugamani arrotolati sotto il braccio, i costumi bagnati sotto i jeans. Siamo rimasti in piedi con gli occhi del controllore addosso che mica voleva farci sedere coi pantaloni zuppi d’acqua di mare.

Era domenica e di domenica da Vesima a Sampierdarena c’era coda, sempre, voleva dire metterci due, o persino tre ore fino a casa, senza la possibilità di avvertire.

Mamma ritardo, mi ripetevo nella testa, come se il pensiero potesse arrivare a te, per telepatia.

Quando sono uscita dall’ascensore tu eri lì, sul pianerottolo ad aspettarmi, piangevi. E così papà me le ha date. Due schiaffi sulla faccia, uno per lato, che mi hanno lasciato sorda per qualche minuto. “Non farlo più che fai piangere la mamma!”


Due anni. E per tutto questo tempo ti sei lamentata.

Della casa troppo grande, dei cani che ti toccano con il naso bagnato, del freddo anche se i caloriferi sono bollenti, della campagna dove non passano mai auto né bus, del silenzio, della solitudine.

Ti lamenti quando esco, quando scrivo, quando leggo, quando passo l’aspirapolvere (fa troppo rumore). La fronte corrugata, gli occhi spioventi, piccoli e a volte cattivi, a volte persi nel vuoto, che guardano sempre indietro.


Non mi tingo più e i capelli sono quasi tutti bianchi. Gli altri dicono che ti somiglio tanto. Io dico troppo. Anche i miei occhi, come i tuoi, s’inclinano verso il basso, la mia blefaroplastica conta ormai vent’anni ed è già un miracolo che abbia resistito tanto. Il chirurgo che l’ha fatta era un amico. È morto da dieci anni, e io ho lasciato perdere i ritocchi. Tanto il tempo passa ugualmente e io gli vado dietro come un cane con il padrone.

Che ore sono? Chiedi. Istintivamente alzo gli occhi sulla pendola, era il cuore della casa. Sono due anni che è ferma. Ti lamentavi perché suonava, perché batteva le ore e le mezz’ore. Di giorno e di notte. Così l’ho fatta smettere. Le lancette segnano le otto meno venti di un giorno che non ricordo.

Un cuore che non batte è inutile.


Mi siedo sul divano e accendo il pc. Lo schermo s’illumina su una pagina di word. Il cursore scalpita là dove l’ho lasciato, una frase a metà, sospesa nel vuoto, aspetta che lo faccia scorrere, aspetta le lettere, le parole, gli a capo, le virgole e i punti. Aspetta. Lo fa da giorni ormai. Ma non è per scrivere che ho acceso il pc. Riduco il foglio a icona e le lettere colorate di Google riempiono lo schermo.

E allora digito: Sostanze letali per l’uomo. Si apre una pagina web: Cinque veleni mortali famosi. Famosi?

Nove sostanze comuni che possono essere mortali per l’uomo: veleno delle api, cloruro di mercurio, fumo, aspirina, caffeina, ibuprofene, sale da tavola, alcol e acqua.

Cazzate. Per morire con sta roba, a parte il cloruro di mercurio, ci vogliono anni.

Digito una nuova ricerca: dose letale di barbiturici.

Un altro buco nell’acqua.


Volevo morire. C’è stato un momento nella mia vita che volevo morire, ma senza accorgermene. Una cosa soft, niente spari, niente voli dal dodicesimo piano di un palazzone di periferia, abitavamo là a quel tempo.

Avevo deciso di farlo donando il sangue, l’ho fatto una dozzina di volte in due mesi prima che se ne accorgessero. Prima di essere spedita a un centro di salute mentale.


“Mamma!!”

“Sono qui.”

“Voglio fare pipì.”

Riduco Google a icona, con tutti i suoi veleni.

Poso il pc, mi alzo e ti sistemo sulla sedia a rotelle. Mentre ti lamenti perché non sono abbastanza garbata, ti spingo sino in bagno.

“Non dare strattoni!” Dici.

Ti reggo sotto le ascelle e ti avvicino al water. Tiro giù i pantaloni e le mutandine.

“Tirale più giù che mi bagno.”

Le abbasso ancora.

“Non farle toccare a terra che si sporcano.”

Le alzo un poco poi ti faccio sedere. Piego la carta e te la passo.

“Fai tu che sennò devo lavarmi le mani.”

“E il bidet, non mi fai il bidet?”

“Fai piano e bagna di più la spugna.”

Sei di nuovo in piedi, barcolli.

“Sta attenta che mi fai cadere! Dammi la crema che mi si arrossa la pelle.”

Usciamo dal bagno.

“E ora dove mi porti?”

“Dove vuoi andare?”

“Sul divano. Accendi la televisione. Voglio vedere Geo

“Oggi è sabato, mamma, e Geo non c’è”

“Impossibile che sia sabato, lo era ieri. È che tu non vuoi accendere la tv perché devi scrivere! Cosa scrivi poi vorrei saperlo…”

Ti sistemo sul divano esattamente dove eri prima.


Due cuscini. Un cuscino. Un cuscino piccolo e uno grande. No, due cuscini piccoli, o forse è meglio due grandi. E la coperta, quella grigia leggera, che l’altra ti pesa sulle gambe.

Quando ti ho portato via dall’istituto, due anni fa, quello dove ti avevo messo in un momento di lucidità, in uno di quei rari momenti in cui mi sono voluta un po’ di bene, c’erano solo vecchie con le coperte sulle gambe, le sedie appoggiate alle pareti del salone. Le hai guardate, mentre venivi via, e hai detto: “Le vedi? Quando diventi vecchia ti mettono lì, una coperta sulle gambe e la tv accesa sulle televendite e si dimenticano che esisti. Io di coperte e di tv non ne voglio sapere.”

“A parte Geo” Dico.

“Certo se c’è Geo allora la guardo.”


Accendo e il teleschermo s’illumina.

“Metti Rai Tre.”

“È questa.”

“Se fosse questa ci sarebbe Geo.”

“Non c’è, oggi è sabato”

“Cercalo.”

“Non c’è, è sabato oggi.”

“L’hai già detto, non sono mica sorda.”

Mi siedo. Prendo il pc, ritorno su Google e sui suoi veleni.

“E allora passami il libro. E gli occhiali.”

Mi alzo, ti passo libro e occhiali.

Torno a sedermi.


Impossibile non trovare una risposta. Su Google trovi tutto.

E invece non riesco a trovare quello che mi servirebbe: una dose letale di barbiturici.

Recettori GABAa, concentrazioni sub-anestetiche, recettori AMPA, recettori colinergici nicotinici, porfiria intermittente.

Insomma, quante cazzo di gocce, compresse, capsule servono per crepare?

Google non mi è di nessun aiuto.

“Che ore sono?”

“Le cinque meno venti.”

“Allora metti Rai Tre che Geo è già cominciato.”

“Oggi è sabato. Geo non c’è.”

“E allora cosa faccio?” Ti guardi intorno gli occhi vanno e vengono. “Vabbè, farò un po’ di maglia.”

“Non leggi più?”

“Non mi piace questo libro e poi quello che scrive non è Maigret.”

“No, Maigret è il protagonista, chi scrive è Simenon.”

“No, non è lui. Questi libri che compri adesso li fanno scrivere da altri. Come i film, fanno lo stesso con i film, chiamano degli attori che assomigliano a quelli veri, ma non sono loro, così li pagano meno.”


Rinuncio a spiegarti e ti do i ferri e la lana. Cinque minuti.

“Sono stufa della maglia. Voglio fare due passi.”

“Due passi come?”

“Due passi. Alzami e dammi il bastone.”

“Non hai un bastone, hai il girello.”

“E allora dammi il girello e aiutami ad alzarmi. Sta qui però che io voglio camminare da sola.”

“Non hai gli occhiali, poi t’inciampi.”

“Che occhiali e occhiali! Ci vedo io.”

Sei in piedi, ti appoggi alle sbarre metalliche della tua protesi deambulatoria e muovi due passi in mezzo alla sala.

“Voglio andare in camera, ma ci vado da me. Tu resta qui seduta e scrivi, tanto ce la faccio. Dimmi solo quando devo girare, che in questa casa ci sono troppe porte e io mi confondo.”

Conto cinque, sette, dieci passi.

“Adesso, gira adesso!”


Il rumore di metallo sui gradini, colpi sordi di te che ruzzoli dalle scale prima del tonfo finale, prima che il muro ti fermi, finalmente.

Poso il pc, mi alzo e aspetto in piedi accanto al divano.

Aspetto che mi chiami. Aspetto i minuti che passano senza che arrivi la tua voce.

Mi avvicino alla pendola, la apro, guardo l’ora sul display del cellulare, sono le cinque meno cinque, sposto le lancette, do la carica e la rimetto in moto. Tra pochi minuti cinque rintocchi romperanno il silenzio.

Recupero il telecomando e spengo la tv. Oggi è sabato, e di sabato Geo non c’è.



 


Clara Negro è nata a Genova nel 1952. Laureata in lingue moderne, è stata insegnante per anni, coltivando nel frattempo un grande amore per la scrittura. Inseguendo la sua passione, ha cominciato a scrivere alcuni articoli per la Fabbri Editori. Attratta dalla narrativa, escono alcuni suoi racconti in diverse raccolte antologiche per Zona Franca, Del Bucchia Editore e Tra le Righe Libri.


Nel 2016 esce per HarperCollins Italia il suo primo romanzo in due volumi La storia dei miei giorni e Tracce di me in ebook, entrambi riproposti nel 2018 in versione cartacea dalla stessa HaperCollins per la collana eLit. Nell’agosto 2019 è uscito in ebook, sempre per HarperCollins, il terzo romanzo Come una farfalla in volo.



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