di Antonella Grandicelli
Era l'estate dell'iguana.
Lo sapevamo camminando rasente i muri, alzando lo sguardo a un cielo liquoroso e privo di vergogna. Non avevamo paura e nemmeno sonno. Orientarsi nelle pieghe del giorno diventava difficile come scommettere sul suo destino. Era cominciata semplicemente, come tutte le cose terribili, come gli amori, le poesie, i digiuni, le vendette.
La prima fu la lucertola.
Il suo verde iniziò una mattina a tingersi di ruggine, le sue zampe a lasciare piccoli segni sulla sabbia dell'aiuola. Un alfabeto stranamente affilato e indecifrabile, un ricamo dorato per un racconto muto. Nessuno di noi seppe decifrarlo e quindi aprimmo gli occhi e lasciammo il letto senza la speranza di tornarvi.
L'aria aveva un calore fetido di speranza che ci colse impreparati, ma non fummo capaci d'incolparne il colpevole. Il passare delle ore sbiancó la luce fino a farne un latte denso e appiccicoso, la lucertola vi si abbeveró e divenne un lucido ramarro, con sogni verdeazzurri e zampe forti e snelle. Smettemmo allora di parlare di rum invecchiati, di cognac, di brandy ambrati; l'acqua divenne la nostra sete, la più grande, la più importante, l'unica che avesse senso chiamare desiderio.
Intanto il giorno si spostava sull'asse dei nostri passi, sulle superbe increspature degli azzurri del ramarro e andava inesorabilmente verso l'oscurità delle colline. A quel punto l'azzurro si sbranó il sole, i brandelli si sparsero ovunque, tingendo ogni riflesso, di pozze, di fontane, di lacrime.
Ed eccola infine, il profilo teso, il collo fiero, l'unghia arcuata, lei, l'iguana, infiammata come un pensiero di immensa follia, protesa verso il buio, negli ultimi spasmi rossastri, divorati dal suo fiato, dal suo fiato prodotti.
A noi non restó che venerarla, come si fa con le divinità che più amiamo, perché ci assomigliano e ci danno l'ineffabile, inutile senso dell'eterno.
Poi il sospiro si chiuse. Giunse la notte e il sogno d'argento dell'iguana calmó l'aria.
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