Elephas indicus culices non timet
(L’elefante indiano non teme le zanzare)
Motto malatestiano
di Bruno Morchio
La piazza deserta cuoce sotto il sole di mezzogiorno e tra le case dalle imposte chiuse il silenzio sprigiona un fragore da stadio.
Mai più avrei pensato di ritrovarmi il 14 agosto in questa città romagnola abbandonata dai suoi stessi abitanti, rifugiati sulle spiagge della Riviera dove uno spesso strato di crema solare copre la dolce pelle delle ragazze e il profumo del mare.
L’appuntamento con il mio uomo è tra quindici minuti dentro la Biblioteca Malatestiana. Al telefono è stato lapidario: «Alle dodici e un quarto mi troverà al banco dove è custodito il manoscritto del De Civitate Dei di Sant’Agostino.»
«Come la riconoscerò?»
«Non ci sarà molta gente», ha risposto trattenendo una risata. «Domanderà: “Cosa fa l’elefante indiano?” e si sentirà rispondere: “Non teme le zanzare”.»
«Perché tanto mistero?» ho chiesto. «Non sarebbe più semplice incontrarci in un bar?»
«Sono in grave pericolo, lei mi può aiutare e la parcella mi sembra più che generosa.»
Sulla parcella non potevo dargli torto, così sono partito da Genova poco dopo l’alba e ora eccomi qui. La camicia di lino fradicia di sudore si appiccica alla schiena come un sudario.
Varco l’ingresso della biblioteca con il disagio di un ateo che entra in chiesa durante la celebrazione della messa. Salgo la scala e mi ritrovo di fronte a un sontuoso portale con due chiavistelli. Spingo il battente e mi si para davanti uno spettacolo che non avevo mai visto prima: un tempio laico eretto per celebrare i fasti di una cultura che odora di sacralità, tre navate scandite da due teorie di plutei accarezzati dalla luce morbida che, a quest’ora, filtra con eguale intensità dalle vetrate aperte sulla destra e sulla sinistra.
Il mio cliente aveva ragione, i banchi sono tutti vuoti. Solo nella seconda fila di destra un uomo vestito di nero sta chino sul leggio dove è aperto un codice fissato al banco da una catenella.
Procedo di alcuni metri e mi accosto. «Cosa fa l’elefante indiano?» domando.
«Bruca l’erba», risponde.
Un tremito mi scuote lo stomaco, desolatamente vuoto, e di colpo realizzo. Faccio due passi indietro proprio quando l’uomo da sotto la giacca estrae un coltello a serramanico con la lama rossa di sangue. Vibra il primo fendente ma sono troppo lontano per colpirmi. Fa per alzarsi ma il ginocchio gli resta impigliato nella catenella.
Quanto basta per assestare un colpo di taglio sulla mano che impugna il coltello.
L’arma rotola sul pavimento e il resto scivola via facile facile. Non è un gladiatore e mi ci vuole poco per immobilizzarlo e chiamare la sorveglianza.
Si precipita dapprima una giovane guida, poi un giovanotto longilineo che si affrettano a chiamare due guardie della polizia municipale. L’uomo è steso a terra nella navata centrale, il braccio torto dietro la schiena e il mio ginocchio piantato tra le scapole. Il suo volto scuro sembra aspirare le parole incise nella pietra sul pavimento: Mal Nov Pan eccetera, senza comprenderne il senso. Né più né meno di quanto io comprenda il senso di quanto sta accadendo.
«Questo coltello è sporco di sangue», nota uno dei vigili, il più sagace, mentre l’altro prende in consegna l’uomo in nero.
«In quale banco sta il De Civitate Dei?» domando alle guide.
«Laggiù, perché?»
«Temo ci troverete un cadavere.»
Infatti, poco più avanti, il corpo di un uomo sta accasciato sul sedile del leggio dove è aperto il manoscritto contenente l’opera di Sant’Agostino. Trafitto da diverse coltellate, ha spantegato sangue dappertutto.
Comincio a spiegare alle guardie municipali quello che non so spiegare neanche a me stesso. Chi sia il morto, cosa ci faccia lì e perché mi abbia chiamato. Anche la parcella è andata in fumo. Posso solo dire che quel poveraccio aveva ragione a sentirsi in pericolo e che io ho salvato la pelle grazie a…
In quel momento avverto un bruciore sul collo. Picchio forte con la mano aperta e tra le dita mi ritrovo i resti spiaccicati di una zanzara gonfia di sangue.
«A quest’ora?» commento.
«Sono zanzare tigre», spiega la giovane guida.
«Eh, già», replico. «Se l’elefante è indiano…»
Tutti mi guardano come se fossi matto.
«… non possono essere che zanzare tigre.»
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