di Marino Magliani
Leo Vialetti si alzò che era ancora buio. Nella notte gli era sembrato di sentire una moto e non aveva più chiuso occhio.
Non accese la stufa, il poco tepore rimasto negli ambienti bastava.
Si preparò il caffelatte e lo sorseggiò davanti ai vetri, indovinando man mano pezzi di collina.
Le finestre delle case si accendevano una dopo l'altra come scattano i pezzi di luce di un neon prima di illuminarsi interamente. Rimase a lungo al tavolo per poter vedere che tutto succedeva. Oggi non andava in campagna, oggi non lavorava, è che l'avvocato l'aveva avvisato, oggi c'era l'asta e lui quella casa non voleva lasciarsela scappare.
Prima di vestirsi da festa, indossò il vecchio giaccone da caccia e uscì a dar da mangiare ai cani e ai conigli.
Mise una mano tra le pietre del muro della stalla e prese la busta dei soldi.
In casa la infilò nella tasca interna della giacca che avrebbe indossato, assieme agli altri documenti, e s'accertò più di una volta che fosse tutto al sicuro. L'avvocato gli aveva spiegato che bastavano le credenziali della banca. Ma lui voleva lo stesso portarsi del contante, ricordava durante i rogiti, tanti anni prima, quando i clienti accettavano il contante e i notai facevano finta di non vedere. Ma un'asta non era un rogito normale.
Quando salì sull'utilitaria, albeggiava.
“Andante crociera.” si disse.
Non incontrò che un paio di coldiretti di ritorno dal mercato dei fiori. Gli spazzini della città, sui marciapiedi e sotto le palme, i furgoni e le luminose dei panettieri.
Sull'Aurelia sì, qualche macchina in più circolava.
A Oneglia cercò un posteggio, lo trovò poco distante dal tribunale.
Il Palazzo apriva alle 8,30, ma l'asta si teneva alle 9,30, e prima delle dieci, sapendo come funzionavano certe cose, non si sarebbe incominciato.
Passeggiò sul porto, dov'erano i nuovi barconi di lusso al posto dei pescherecci.
Nell'aria vitrea, il cuore spingeva forte, le mani si inumidivano, camminava come in trance, in una sensazione di purezza.
“T'agiti fin da adesso? Alle otto chiami l'avvocato.”
Non voleva chiedergli niente, l'aveva pregato di fargli sapere se c'erano cambiamenti, riguardo al giorno dell'asta, l'ora e le modalità. L'avvocato non l'aveva mai cercato, e questo lo tranquillizzava.
L'aria, i palazzi scrostati sul porto, la gru altissima e sotto i pescherecci, si colorava tutto: il mare del porto meno, manteneva il buio calmo dei carruggi la notte.
Si propose di arrivare fin dopo la Capitaneria, dove la riga di palme, magre e nere, si alzavano contro il poggio di Capo Berta. Ma poi andò oltre, passò davanti a un albergo e incontrò la gente che correva col cane.
Al ritorno entrò in una cabina telefonica e chiamò.
Quando uscì, il mare tremava di luce, ma non se ne accorse subito.
Poteva entrare in tribunale attraverso il portoncino sul retro, dove s'erano intrufolati i due giovani signori con le borse di cuoio, poi preferì fare tutto il giro.
Salutò il poliziotto che sostava davanti all'ingresso centrale, disse che era lì per l'asta delle nove e mezza, sebbene il poliziotto non gli avesse chiesto nulla.
La sala d'attesa consisteva in un corridoio lunghissimo, senza finestre. Dalle porte, una di fronte all'altra e quasi tutte aperte, si scorgevano le scrivanie.
I telefoni squillavano.
Tra una porta e l'altra c'era una panchina e qualcuno seduto che aspettava.
Dopo un po' il corridoio diventò un via vai di gente, in gran parte doveva essere gente che lavorava là dentro, avvocati o giudici. Un paio di agenti di polizia accompagnarono un detenuto.
Leo bussò a una porta a caso e mostrò all'impiegata il foglio dell'asta. Disse che non sapeva se era al piano giusto, ma il giorno era oggi, alle nove e trenta: gliel'aveva confermato poco prima il suo avvocato.
L'impiegata lo indirizzò al fondo del corridoio e poi a destra.
Le panchine dove si fermò erano tutte occupate. Ogni tanto arrivava uno di questi signori eleganti con la borsa di cuoio sotto il braccio. Stava per iniziare un processo. Dai discorsi gli era parso di capire si trattasse di un processo per abuso edilizio.
Un gruppetto di spettatori, o testimoni, avvisato da uno degli uomini eleganti, s'infilò nell'aula. L'ultimo chiuse la porta e dopo un po' si sentì la corte entrare.
La panchina s'era svuotata. Si sedette, si toccò la giacca, nel punto in cui teneva documenti e soldi. Chiuse gli occhi.
Poi gli venne un dubbio e si diresse di nuovo verso la porta dell'altro corridoio. Bussò.
"Signorina, io ho portato con me - parlo sempre della faccenda dell'asta - i documenti bancari che mi ha dato l'avvocato. "
"Bene."
"Ho anche del contante."
"Cosa ne fa, siamo mica alla fiera..."
Tornò a sedersi. La signorina l'aveva tranquillizzato. Prima di iniziare passava un impiegato a controllare i documenti; se poi si aggiudicava l'asta, per il pagamento avrebbe ricevuto istruzioni. Non ne sapeva molto neanche la signorina, si occupava di altro, ma andava tutto bene, gli aveva detto.
Se chiudeva gli occhi sentiva i rumori, come di ospedale, rumori di scale, e di gente che si chiamava, telefoni che squillavano... Un cellulare stava suonando a pochi metri da lui. Le panche che poco prima s'erano svuotate, erano di nuovo tutte occupate. Che processo aspettavano questi? Avevano facce da abuso edilizio. Oggi era il giorno dei condoni?
Quello che stava rispondendo al telefonino s'era alzato, "In tribunale... non lo so... fra una mezz'ora, prima penso di no, ti chiamo io... Ti richiamo io." E s'era tornato a sedere.
Ora Leo lo fissava. Era un giovanotto dal mento faraonico, capelli bagnati o imbrillantinati, e tocchettava i tasti del telefonino. Cos'aveva voluto dire con quel “fra una mezz'ora”, partecipava all'asta anche costui? Questa gente, la signora seria e quest'altro, robustello, di mezza età, che gli pareva d'aver già visto da qualche parte, partecipavano all'asta?
A nessuno poteva interessare quel pezzo di campagna magra, solo a lui, e per lui si trattava solo di una questione di memoria. Era uno che ricordava tutto. Troppo tutto. Fare il contadino non era un lavoro, ma un esercizio continuo di memoria.
Le chiavi che aveva in mano ora... Anche quel metallo, non c'era mica bisogno di far chissà quale sforzo, gli ricordavano quando da bambino giocava con le pile piatte e si portava alla lingua i poli e sentiva un formicolio.
Se non fosse che c'era legato dal sangue e da ciò che stava nel cranio, avrebbe mai deciso di comprare quella terra diroccata, circondata dalle fasce?
Per tranquillizzarsi pensò a quante volte s'era fatto questa domanda nella notte, e gli bastò per ritenersi soddisfatto di come procedevano le cose.
Ma poi, incrociando lo sguardo del grassottello...
"Giovanotto, non saprei dove prendervi..."
"Siete di Sorba sottana?"
"Perdio."
"Allora può darsi che ci si sia visti alla sagra."
Non si dissero altro, e tuttavia, ora tranquillo non lo era più. Come mai l'aveva collegato a Sorba? Ora aveva ragione di credere che anche costui fosse interessato alla casa e alla terra.
S'alzò e fece quattro passi per poi avere il pretesto di sedersi sulla panca del grassottello.
"Che poi se ci andiamo a vedere non c'è nemmeno il merito."
"Per l'asta, intende?" fece il grassottello.
Leo si fece serio, "Parlo ben dell'asta, della casa che scende e dei tremiladuecento metri quadri siti a Sorba sottana, che non c'è più un muro intatto... io ci confino..." Siti, lo disse con quel termine che usavano i geometri in comune, e lo disse perché sentissero pure quello che armeggiava col telefonino e la signora. Come per far valere la sua prelazione da coldiretto. Che sapessero. A pari offerta la proprietà era la sua.
"Oh sarà poca battaglia, almeno da parte nostra", lo tranquillizzò il grassottello.
Cosa intendeva per “parte nostra”, chi rappresentava il grassottello? Leo sporse le labbra e lo guardò due o tre volte di sottecchi.
Dopo un po' si rivolse a quello del telefonino. Siccome costui poteva essere suo figlio gli diede direttamente del tu.
"Di', anche te sarai qui per l'asta."
"Come tutti, immagino..." disse quello col mento faraonico e il telefonino in mano.
" Certo... ma io un motivo ce l'ho, costi quel che costi" disse sicuro, "sono pronto a pagare tre quattro e cinque volte il suo valore. Ma voi?"
" Dipende dal valore che pensa di darci lei" rispose senza emozione il giovanotto dal mento faraonico.
La signora invece aveva taciuto, sembrava fosse lì per forza.
Dopo aver parlato, il giovanotto era stato richiamato al cellulare e si rialzò di scatto. Si allontanò.
Il tentativo che Leo aveva fatto di darsi un'aria sicura, con la sparata dei tre quattro volte il valore della villa, non aveva ingannato il grassottello.
Leo aspettava una reazione e il grassotello gli aveva rivolto un sorriso come di pietà, e chiesto: "Apparteneva alla sua famiglia la proprietà?"
"Di solito si va all'incanto per qualcosa che uno possiede già?"
All'incanto! Una parola dialettale che traduceva il termine asta, una parola che il grassottello dimostrava di conoscere.
"No, ma a volte si partecipa a un'asta perché ci sono di
mezzo le banche, a volte le cose bisogna davvero che uno se le compri una seconda volta... A me il motivo per cui lei è qui..." Si fermò, da dentro l'aula giunse un rumore di sedie. Era un falso allarme, non avevano ancora finito.
Prima che il grassottello parlasse, fu Leo a prendere la parola. "Lasci perdere il mio, di motivo, e mi dica il suo e quello di questa gente..."
"Siamo agenti immobiliari, amministriamo condomini, io sono geometra, rappresento la Deutch U-Reizen, che fa parte di una multinazionale che sta investendo molto in Liguria. Siamo a 80 km da Montecarlo e abbiamo una delle più belle riviere mediterranee..."
Ecco chi erano. Erano quelli che compravano a tappeto.
Anche la signora e il giovane dal mento faraonico dovevano rappresentare qualche diabolica agenzia immobiliare.
Alle dieci meno qualcosa, l'aula si svuotò e un impiegato disse che c'erano le aste.
Si cominciò, come dai documenti, sulla base di 5.000 euro.
Lui rilanciò di 500 euro, come gli aveva consigliato di fare immediatamente l'avvocato. Il grassottello fece un segno, l'ometto dalla pedana disse 6, Leo rilanciò subito a 7.
Ogni volta che interveniva tirava una specie di sospiro, e chiudeva i pugni.
E ogni volta, o quello del telefonino o il grassottello rilanciavano.
La signora non aveva ancora mosso una volta la mano.
A 9.000 euro quello del telefonino si chiuse nel pugno il mento faraonico, e fece un rumorino con la bocca, poi la aprì ma muta, si era arreso e la lotta rimase tra il grassottello e Leo. Oltre i 10mila non ci fu più lotta neanche col grassotello.
Leo sapeva di avere vinto, lo pensava, e non lo sentiva, lo pensava solo per immaginarlo. Aveva tirato fuori le chiavi della Uno gialla, senza accorgersene, e le aveva portate alle labbra per immaginare il formicolio dei poli delle vecchie batterie piatte quando era bambino.
Prima che te lo dicano altri era un romanzo di, mi pare, circa 550 pagine. Una decina di anni fa lo lesse Antonio Tabucchi e mi disse dieta, almeno una ottantina di pagine. Ne tagliai circa 200. Alcuni scarti sono dei veri e propri racconti, come L'asta, altri si possono dire frammenti, prose. È l'officina del romanzo al quale ho lavorato una ventina d'anni, senza affatto intendere che più a lungo si lavora a un romanzo più la sua qualità deve essere alta. La scrittura è come la cucina, c'è un punto di cottura, oltre si brucia qualcosa.
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