di Sara Rattaro
Il suono più assordante che puoi incontrare è quello della solitudine. Il rumore della porta che si chiude alle tue spalle lasciando fuori una lunga giornata di lavoro e non avere nessuno da salutare, i tuoi vestiti sistemati per occupare lo spazio doppio che hai a disposizione e quella parte di letto che sembra improvvisamente enorme e fredda.
Il tuo amore per me è finito in un giorno d’autunno. Tutti si ostinano a dire che questo è un sentimento testardo che ti spinge a fare cose folli e mette radici così profonde che per essere rimosso ha bisogno di tempo e impegno.
Non è vero. A te è bastato un attimo. Una sera di fine estate e una cena di lavoro.
Eravamo insieme da quasi vent’anni. Io sempre a rincorrerti, con il cervello davanti e il cuore dietro, in affanno. Tu sempre seduto comodo. Ti ho amato dal primo momento o almeno così mi piace ripetere a tutti quelli che mi chiedono spiegazioni, sempre più di rado per fortuna, per giustificare due interventi chirurgici e la rinuncia a diventare madre perché me l’hai chiesto tu.
Se dici che l’hai fatto per amore tutti diventano più indulgenti.
Ma non è stato sempre così difficile.
C’è stato un momento in cui ti piacevo tantissimo. I primi anni, quando io ero ancora giovane e bella e tu l’uomo più romantico che avessi mai incontrato. Te lo ricordi? Mi sentivo così fortunata ad averti accanto. Credo che sia questo ad avermi ingannata, sentirmi migliore delle altre perché ti avevo vicino.
Non avevamo molti soldi ma quei pochi che c’erano venivano spesi per divertirci insieme. Mi portavi nei ristoranti migliori perché volevi che tutti vedessero quanto fossi splendida. Parole tue. A volte mi sembra di sentirti ancora. Mi viene da sorridere, poi un pugno sotto lo sterno mi obbliga ad abbassare lo sguardo.
Abbiamo messo su casa, l’abbiamo scelta e arredata. Ci sono voluti anni per farla assomigliare a quella che volevamo, così tanto tempo che a volte sembrava fuori moda. Un po’ come me che, mentre ti seguivo ovunque, ripetevo che eri il migliore e brindavo ai tuoi successi lavorativi - sfiorivo lentamente.
Ero esattamente come il nostro amore. Iniziavo a non andare più bene. E quando le cose hanno cominciato a girare per il verso giusto e i soldi non erano più un problema, tu li hai spesi soprattutto per me. Mi regalavi vestiti bellissimi che raramente mi entravano. Avevo preso qualche chilo. Non molti, perché nessuno sembrava accorgersene. Forse una taglia.
“Dovresti metterti a dieta tesoro. Non riesco a chiuderti la cerniera…”
Me l’hai detto guardandomi allo specchio mentre cercavi di costringermi dentro un lungo abito scollato sul seno.
Io ho abbozzato un sorriso amaro.
Poi mi hai girato intorno al collo un filo di perle luminose e preziose. Ho spalancato la bocca dallo stupore. Le desideravo da sempre.
“E queste sarebbero state perfette sul décolleté che avevi una volta”.
Sono rimasta di sale, te ne sei accorto.
Mi hai abbracciata. Mi volevi consolare come se il mio aspetto giovane l’avessi smarrito di proposito. Poi mi hai lanciato il salvagente, a modo tuo.
“Dovresti rifarti il seno. Saresti perfetta!” hai esclamato con la stessa semplicità con la quale qualche anno prima, mi avevi chiesto di rifarmi il naso, l’unica imperfezione del mio viso. Secondo te.
Va bene. Andava bene. Sarebbe andata bene.
Ho accettato. Non era un grande sacrificio.
Qualche giorno in clinica, un dipinto di lividi che si sarebbero asciugati prima di andare al mare e una cicatrice invisibile agli occhi degli altri.
Quando dicono che per essere felici basta poco, di solito, mentono.
Con l’intervento ero anche dimagrita e finalmente mi potevi portare fuori con le perle al collo. Me le hai chiuse tu, fissandomi sorridente attraverso lo stesso specchio.
Siamo andati avanti. Tu eri di nuovo contento e io lo ero con te. Poi ancora quell'assenza, i tuoi occhi che stazionavano sempre meno spesso sul mio corpo. Mi sono guardata e ho cercato la soluzione da sola. Ti avrei anticipato. Mi dedicavo un pomeriggio alla settimana e quei pochi soldi che avevo da parte. Ero sicura che saresti stato orgoglioso del mio spirito di iniziativa.
La mano del dottore era lieve e rassicurante. A ogni incontro si portava via qualche mese della mia vita. La pelle del viso mi riluceva sempre più liscia. Poi il collo e le mani.
Non ti avevo detto nulla e speravo che tu non te ne accorgessi e che pensassi semplicemente che diventavo ogni giorno più splendida. Vivevo così. Lontana dai raggi del sole, dal fumo, dai cibi grassi e dal riscaldamento troppo alto. Strizzata in abiti da ragazzina con il mio seno a prova di gravità.
Andavo a correre tutti i giorni prima di andare al lavoro e mi nutrivo di pasti sostitutivi. Allontanavo l’idea della maternità perché avrebbe distrutto il mio corpo e perché a te i bambini non sono mai piaciuti.
Se ci ripenso ora, mi domando dove pensassi di arrivare e soprattutto cosa sperassi di ottenere. Sfidare il tempo che passa è da insicuri ma quando ci sei dentro non te ne puoi accorgere.
E poi se ti senti insicura, spesso non è nemmeno colpa tua. Non tutta almeno.
Quella sera d’autunno te ne sei andato. L’hai fatto.
Il nostro amore è finito quel giorno che ipocrisia chiamarlo amore. Che ipocrisia pensare che qualcosa che non esisteva, potesse terminare.
Eravamo andati a una cena organizzata dalla tua azienda. Avevo saltato il pranzo per una settimana per infilarmi nel tuo abito preferito. Era lungo, scollato sulla schiena e con un lungo spacco fino alla coscia. Con i tacchi così alti riuscivo a fissarti negli occhi. Tu mi hai abbracciata in ascensore facendo attenzione a non rovinarmi la piega. Non sapevo che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui ti avrei avuto così vicino.
“Sei bellissima” mi hai sussurrato. Ero felice.
Quando siamo entrati nella sala del ristorante c’era qualcosa che non andava, una stonatura evidente come una pellicina che non riesci a smettere di torturare.
Io.
Tutti gli occhi sobri e scuri degli invitati si concentrarono su di me. Sul mio volto poco espressivo e la mia pelle troppo scoperta.
Tu hai lasciato la mia mano e ti sei allontanato lasciandomi da sola al centro del mirino. Un cameriere si è avvicinato e mi ha offerto dello champagne. Ho sistemato la borsa sotto al braccio e l’ho afferrato perché speravo che almeno lui mi salvasse.
Quando mi sono voltata, mi sono finalmente vista. Un grande specchio posizionato accanto all'entrata per dare profondità alla stanza mi stava restituendo tutte le mie risposte.
Ero una donna di quasi quarantacinque anni, priva di espressione e rughe, avvolta in un abito di seta leggero color carne che si appoggiava a un seno ostinato mentre tutto il resto cercava di raggiungere il pavimento. Compresa la mia dignità. Poco più in là, alle mie spalle, c’eri tu. Stavi parlando con una donna molto giovane. Non l’avevo mai vista, forse era una nuova assunta. Portava una lunga gonna nera e una camicia che le fasciava il seno giovane. Ti sorrideva muovendo ogni singolo muscolo del viso, cosa che io non riuscivo più a fare. La fissavi con quel tuo modo unico, quello che mi aveva fatto perdere la testa per te.
Poche settimane dopo hai fatto le valige.
“Non ti amo più” hai avuto il coraggio di dire. Era il tuo alibi perfetto esattamente come per tanti anni era stato il mio. Io che per amore avevo sopportato, tu che per amore te ne andavi.
In suo nome si possono fare le cose più stupide e crudeli. È per questo che l’amore spesso è solo una bella trappola.
Ora sono qui. Sono passati sei mesi e di te non ho quasi notizie.
So solo che sei andato a vivere con quella donna, quella della festa. Quella ancora giovane. Me l’ha fatto sapere una collega con la scusa che era meglio saperlo da lei che incontrarvi per caso. A volte scopri delle amiche che non pensavi di avere.
Vorrei avvertire la tua giovane amante e dirle chi sei tu realmente, ma passerei per una vecchia patetica che non sa accettare l'idea di essere stata scaricata.
I primi giorni ho fatto finta di nulla. Era tutto come sempre. La sveglia, la corsa, il lavoro e la cena leggera. Poi sono crollata. Ho smesso di dormire e l’unica cosa che sembrava darmi sollievo era urlare. Aprivo la doccia e mi ci buttavo dentro. La mia voce acuta veniva spinta a terra dal getto d’acqua bollente. Riuscivo a dormire solo grazie alla chimica, e mangiavo solo porcherie che puntualmente poi vomitavo. Finché un giorno ho avuto un’idea. Sono andata in camera. Ho aperto l’armadio e ho afferrato tutti gli abiti scollati, le sottovesti, le minigonne, le scarpe con tacchi troppo pericolosi per essere legali, la biancheria che mi obbligavi a indossare per le notti di fuoco e la mi vestaglia trasparente. Li ho portati in giardino. Li ho cosparsi di alcol e ho dato fuoco. Sono rimasta lì a fissare le fiamme che gridavano al cielo la mia storia.
Il giorno dopo in un negozio del centro che non avevo mai degnato di attenzione , mi sono comprata una tuta da ginnastica e delle scarpe comode.
“Posso metterli subito?” ho chiesto.
“Certo signora. Le dò un sacchetto per i suoi vestiti”
“Non importa. Li butti.”
“Ma è sicura?”
“Mai stata più sicura…”
Ho pagato, ho sorriso come ho potuto e sono uscita.
In lontananza ho visto qualcosa di nero tra il marciapiede e la ruota della mia auto. L’ho raccolto. Era un portafoglio da uomo. Mi sono guardata intorno sperando di individuare il proprietario così che la mia nuova vita iniziasse con una buona azione. Nessuno mi stava guardando. Era forse la prima volta che non mi sentivo osservata in mezzo alla gente. Potevo farcela. Sono salita in auto e ho aperto il portafoglio alla ricerca di un documento d’identità.
Lo sfortunato si chiamava Giovanni e abitava nel quartiere vicino al mio. Presto avrebbe riavuto le sue cose. Mentre riponevo il suo documento nello scomparto da cui l’avevo sfilato, ho visto una fotografia. Erano una donna con due bambine, probabilmente due gemelle. Lei poteva avere qualche anno meno di me ma sicuramente non era diventata madre da giovane. Ho provato simpatia e rabbia come se le avessi riconosciuto addosso qualcosa di molto mio. Ho aperto un foglio di carta che era insieme alla foto e ho letto.
Mi dispiace. Mi dispiace di averti fatto tanto male, mi dispiace di non essermi accorta prima di essere malata, mi dispiace di andare via così, so che non è molto elegante e mi dispiace di non aver più fatto l’amore con te, anche se stare abbracciata a voi sul letto è stato addirittura meglio.
Non dire mai alle bambine che ho scelto i loro nomi dopo aver visto una stupida commedia in tv. Racconta di un sogno fantastico o di un libro letto mentre le aspettavo, fai che riescano a perdonarmi.
Riavvicinati ai tuoi genitori. Ora che io non ci sono più, tu e le bambine avrete bisogno di loro, del loro aiuto e dei loro soldi.
Frequenta mia sorella, lo so che ti sembra qualcosa di assurdo ma provaci. Invitala a cena, lei è divertente e bellissima e ama le nostre figlie. Lei è incredibile. Sareste perfetti insieme e le bambine avrebbero una mamma, la migliore disponibile Ma non fare paragoni con me, non sarebbe giusto. L’avrei vinta io solo perché sarò morta. Fregatene dei commenti della gente, hanno sopportato la nostra unione, si abitueranno anche al resto.
Non farmi seppellire con l’abito delle nozze e nemmeno con quello da clown. Prendi qualcosa che usavo spesso, qualcosa con cui sto comoda e non conservare tutte le mie cose. Regalale ai più bisognosi, è la cosa che preferisco. Tieni un paio di felpe, tu sai quali, falle impacchettare per bene e dalle a Ella e Mia quando saranno abbastanza grandi da capire. Fai che studino, non lasciare che si perdano come abbiamo fatto noi, insisti più che puoi, lo so che questo ti farà arrabbiare ma ora non potrai certo sgridarmi. Voglio che le mie figlie abbiano una vita e un’istruzione dignitosa. Tu seguile finché non avranno trovato la loro strada e poi rassegnati se non dovesse piacerti, ma non perderle di vista. Mai. Saranno sempre piccole.
Resta in salute, ti prego non farti prendere per il culo dalla vita come ho fatto io, non lo sopporterei.
Non dimenticarmi ma non parlare sempre di me. Lasciami andare.
Ti ho amato così tanto che faccio fatica a scriverlo.
Giulia.
L’ho chiusa prima che le mie lacrime la bagnassero.
Piangevo per quelle parole, per quella donna che non conoscevo e per quel fortissimo desiderio che sentivo di essere lei. Quella sconosciuta che aveva sentito il bisogno fortissimo di ringraziare la sua vita e il suo amore prima di dire addio.
Ho buttato il portafoglio e la lettera sul sedile accanto come se avessero preso fuoco. Perché proprio io? Non ero già abbastanza vuota? Se fossi in punto di morte, non avrei altro da fare che due misere telefonate, una delle quali al mio datore di lavoro.
Avevo barattato tutto per un paio di tette nuove che mi impedivano di chiudere le camicie. Se avessi potuto me le sarei strappate.
Ho appoggiato la testa allo schienale e ho guardato in alto. Avevo bisogno di piangere per quella donna come se avessi perso un’amica, poi ho guardato il portafoglio di suo marito e ho messo in moto.
Pochi minuti dopo ho parcheggiato davanti all’indirizzo che avevo trovato. Era una zona residenziale, simile alla mia. Una schiera di piccole palazzine con ampi giardini. Perfette per le famiglie borghesi con tanti figli.
Ho visto un uomo dai capelli brizzolati che assomigliava molto alla fotografia del documento che avevo trovato, gli uomini non barano quasi mai in queste cose. Stava facendo salire in auto due bambine bionde mentre parlava al telefono. Sembrava agitato. Ho immaginato che stesse andando a fare la denuncia di smarrimento di documenti e che stesse parlando con la banca per bloccare le carte di credito.
Sono scesa.
“Giovanni!” ho urlato correndo verso di lui come se lo conoscessi. Ero agile con la mia tuta e le scarpe comode.
Lui si è girato e mi ha guardata con aria interrogativa.
“Sta cercando questo?”
“Oh mio Dio!” ha esclamato, poi continuando la conversazione al telefono ha detto “aspetti l’ho ritrovato. Non blocchi nulla! Un angelo è venuto a riportarmi il portafoglio!”
Si stava riferendo a me? L’angelo ero io?
“Grazie mille. Lei mi ha salvato!”
“L’ho trovato per terra in centro e mi sono permessa di guardare l’indirizzo...”
“Ha fatto benissimo” ha detto mentre guardava se c’era tutto. La foto e la lettera.
Mi ha sorriso.
“Posso offrirle qualcosa? Un caffè?”
“Non è il caso…”
“La prego. Lei mi ha appena riportato la cosa più preziosa che ho. Non può immaginare il regalo che mi ha fatto. Vero ragazze? Venite a presentarvi alla signora tanto gentile che ha riportato il portafoglio a papà…”
Le due bambine si sono avvicinate e mi hanno sorriso.
“Queste sono Ella e Mia!”
“Che bei nomi. Li devo aver letti in un romanzo…”
I loro sguardi si sono illuminati e sono corse in casa.
“La prego si accomodi. Fa piacere fare due chiacchiere con qualcuno ogni tanto…”
La casa era luminosa e vivace.
Giovanni ha preparato del caffè e ha messo in tavola una torta.
“L’ho fatta io, l’assaggi o mi offendo”
Andava contro ogni regola ma dire di sì mi ha fatto molto bene.
“È buonissima” ho esclamato perché era vero.
“Ho imparato quando mia moglie è morta. Mi ha lasciato la ricetta per le bambine…”
“Deve essere stata una donna straordinaria...” ho detto mentre pensavo alle sue parole scritte.
Lui mi ha guardata come se l’avesse capito e cogliendo l’imbarazzo nei miei occhi ha continuato: “Era testarda come un mulo, di quelle donne che sanno fare tutto e che lasciano un vuoto incolmabile per uno normale come me…”
“Le sue bambine sono bellissime…”
“Anche questo l’ha voluto lei…”
“Beh i figli si fanno in due…”
Lui si è messo a ridere e si è seduto di fronte a me.
“Lei è sposata?”
“Separata da poco. Ha incontrato una più giovane e se n’è andato. Un cliché…”
“Deve essere dura...”
“A volte sembra impossibile, altre incredibile…”
“Avete figli?”
“No, altra cosa in cui ho fallito. A differenza di sua moglie io non sono brava a fare quasi nulla…”
“Non lo dica. Sono sicuro che non è vero…”
Ci siamo guardati. E allora mi sono fatta coraggio.
“Mentre cercavo il suo documento mi è capitata tra le mani la lettera di sua moglie e non ho potuto evitare di…”
“Lo capisco…”
“Mi dispiace non avrei dovuto…”
“Non si scusi. Giulia con le parole era imbattibile e se sapesse che quello che ha scritto le è piaciuto, o magari l’ha anche commossa, la inviterebbe a cena stasera!”
“Com’è successo?”
“Leucemia acuta. Era incinta delle bambine. Un giorno stava bene, quello dopo era piena di lividi e sdraiata in un letto di ospedale. Ha rifiutato le cure per portare avanti la gravidanza e quando ha partorito era ormai tardi. Ha iniziato la chemioterapia ma quando si è accorta che le stavano solo allungando la malattia e non la vita, ha chiesto di sospendere tutto. Voleva essere lucida per noi, per poco però.”
Guardavo quell’uomo come se improvvisamente avessi scoperto l’arte. Era delicato e lieve.
“Ci siamo conosciuti tardi. Lei era già sposata e ha mollato tutto per me. I miei genitori non la volevano nemmeno vedere. Una separata avrebbe rovinato la mia immagine. Poi io ho lasciato gli studi di medicina e la carriera che mio padre sognava per me da quando era diventato primario del suo reparto, per mettermi a scrivere sceneggiature teatrali. C’è stato un momento in cui eravamo solo io e Giulia. Se l’avessi persa non so cosa avrei fatto della mia vita. Gli anni passavano e i figli non arrivavano così abbiamo chiesto aiuto alla scienza. Siamo andati all’estero e sono arrivate loro.”
“Giulia aveva una sorella?”
Mi ha guardato stupito.
“L’ho letto nella lettera e mi è sembrata una cosa straordinaria chiedervi di…”
“La definirei folle. Negli ultimi mesi di vita era ossessionata. Faceva di tutto perché io e mia cognata passassimo del tempo insieme. Pensi che voleva addirittura che andassimo in viaggio di nozze insieme.”
“Cosa?”
“Io e Giulia ci siamo sposati poche settimane prima che lei morisse. Avevo comprato due biglietti per andare a Parigi. Una parte di me sapeva che non ne avremmo mai avuto il tempo ma l’altra mi impediva di ammetterlo. Così quando lei l’ha saputo, ha iniziato a tempestarci perché il suo nome sul biglietto fosse sostituito da quello della sorella.”
“Sembra un romanzo…”
“La realtà supera la fantasia…vuole un’altra fetta di torta?”
“Volentieri. È buonissima…”
“Avanti me lo chieda…”
“Cosa?” ho chiesto arrossendo.
“Se tra me e mia cognata è mai successo qualcosa. Non è curiosa? Non racconto mai molto della mia storia ma quando capita, difficilmente mi lasciano andare senza risolvere questa curiosità…”
“Ebbene sì, anche se mi sarei accontentata della risposta che avevo in testa…”
“E qual è?”
“No, la prego. Così non sembro solo curiosa ma rischio di essere scambiata per fanatica…”
“Ilaria, mia cognata, mi è stata vicina. Si occupava delle bambine nella cosa per me più difficile. Mantenere la normalità. Alzarle alla mattina, mandarle all’asilo, farle giocare, variare la loro alimentazione. Il tutto mentre io vagavo per casa come un fantasma. No, non ci siamo mai avvicinati. Non in quel senso. Nonostante fossero sorelle non si assomigliavano molto e io ho amato troppo Giulia per poterle ubbidire ma credo che questo mia moglie lo sapesse. Questo spiega anche perché la ricetta della torta l’abbia lasciata a me e non a sua sorella. Voleva che imparassi a vivere senza di lei.”
Ho abbassato lo sguardo.
C’era qualcosa in quell’uomo che mi affascinava al punto che mi sarei alzata e l’avrei baciato. Così ho messo in bocca l’ultimo pezzo della seconda fetta di torta come se fossi una abituata a mangiare dolci.
“Mi dispiace. La sto annoiando con le mie avventure famigliari mentre lei avrà sicuramente molte cose da fare. A volte parlare con una sconosciuta fa bene.”
“Ha ragione. Io non ho nemmeno quello. Tutte le persone con cui potrei sfogarmi non vedono l’ora di sputarmi in faccia un bel te l’avevo detto o te la sei cercata che non sono ancora pronta ad ascoltare”.
“Che sbadato, non le ho nemmeno chiesto come si chiama.”
“Gloria”.
“È un bel nome…”
“Un tormento…ha presente la canzone? Ecco io la odio!”
“Sarà, ma io trovo che le stia molto bene. È un nome che promette molte cose…”
L’ho guardato negli occhi… Erano grandi e verdi chiaro contornati da piccole rughe che parlavano apertamente di tutte le sue cicatrici.
Ho scostato la sedia e mi sono alzata.
“Ora devo andare” ho detto a malincuore perché sarei rimasta lì a lungo, ma tutte le mie insicurezze stavano tornando a chiamarmi e presto mi sarei trasformata di nuovo in me stessa. In una vecchia patetica, superficiale e buona a nulla.
“Grazie di avermi riportato il portafoglio, mi ha salvato...”
“Sono io che la devo ringraziare.”
“Perché?”
“Perché questa chiacchierata è stata una delle cose migliori che abbia fatto negli ultimi mesi, forse anni...”
Mi sono diretta verso l’uscita. Giovanni ha chiamato le bambine a rapporto.
“Salutate Gloria!” ha ordinato.
“Ciao Gloria!” hanno detto quasi in coro e io sono esplosa in un grande sorriso. Uno di quelli veri, che non facevo da tanto tempo.
“Arrivederci, bambine, è stato un piacere fare la vostra conoscenza” ho risposto.
“Può tornare a trovarci quando vuole signora gentile” ha esclamato una delle due, quella meno timida mentre la sorella si avvicinava alla gamba del padre.
Le ho accarezzate sulla testa e sono uscita da quella casa che mi sembrava di conoscere da sempre, inorgoglita dal complimento disinteressato che avevo appena ricevuto.
Ho attraversato il loro giardino e ho aspettato che una macchina passasse per attraversare.
“Gloria...”
La voce di Giovanni mi ha colpita alle spalle facendomi voltare.
Si stava avvicinando a me come se si fosse dimenticato di dirmi qualcosa di importante.
“Aspetta. Posso darti del tu?”
Ho annuito.
“Mi chiedevo se una di queste sere ti facesse piacere venire a cena qui da noi. Io non posso uscire spesso con le bambine ma in questi anni ho imparato a cucinare qualcosa di decente e pensavo che così potresti raccontarmi la tua di storia. Prometto che non ti dirò che te l’avevo detto!”
Ho spalancato le labbra e le ho richiuse. L’emozione mi stava impedendo di rispondere.
“Sono stato precipitoso. Mi dispiace.” ha continuato lui in preda all’imbarazzo, facendo un passo indietro.
“No, no” ho cercato di fermarlo “Volevo dire che sarebbe bellissimo cenare insieme solo che credo di non avere nulla da mettermi.”
“Quella tuta è perfetta!”.
Assist, appoggio, lancio a rete o ultimo passaggio, chiamalo come vuoi. Quando la vita ti lancia una palla buona puoi solo cercare di buttarla dentro.
Sara Rattaro è nata a Genova. Laureata in Biologia e in Scienze della Comunicazione, ha lavorato come informatore farmaceutico prima di dedicarsi completamente alla sua grande passione, la scrittura. È autrice di molti romanzi: Sulla sedia sbagliata, Un uso qualunque di te, Non volare via (Premio Città di Rieti 2014), Niente è come te (Premio Bancarella 2015), Splendi più che puoi (Premio Rapallo Carige 2016), L'amore addosso (Sperling & Kupfer, 2017), Il cacciatore di sogni (Mondadori, 2017), Uomini che restano (Sperling & Kupfer, 2018 ) Sentirai parlare di me (Mondadori Editore, 2019 ) e, appena uscito, Con te non ho paura (DeAgostini, 2019). www.sararattaro.it
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