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Immagine del redattoreArianna Destito

Il teatro visionario di Ricci/Forte

Nel 2012 ho intervistato i due drammaturghi Stefano Ricci e Gianni Forte. Li hanno chiamati gli enfants terrible del teatro italiano ma loro non amano le etichette e le definizioni. In questi anni sono cresciuti e hanno girato tutto il mondo con i loro spettacoli.



Grimmless finalmente a Genova.

Allacciate le cinture di sicurezza, anzi slacciatele e atterrate nel visionario mondo di Ricci e Forte. Una centrifuga delle emozioni senza ammorbidente dove il disincanto spunta tra i demoni di una vita trascorsa nell’ovatta di un mondo sotto l’incanto di un’ipnosi collettiva.

Grimmless è potente e gli attori sono coraggiosi e generosi. Si mettono a nudo davanti a un pubblico che entra immediatamente nelle loro storie, come in uno specchio, tra le pieghe di un transfert che cattura e coinvolge dal primo minuto dello spettacolo. E anche dopo. Alla fine ti porti via un po’ di loro e una parte di te resta li, viva, appesa in quell’ora filata, su quel palco fra il sudore e il dolore.

Perché Grimmless?

r/f - Eravamo stanchi di questo torpore invadente. Siamo tutti personaggi di una fiaba in attesa di un prodigio che venga a ribaltare la nostra esistenza. Le favole, non quelle concrete dei Grimm ma la mistificazione zuccherosamente melensa che Disney ne ha fatto, ci vengono sciolte nel latte materno e le assimiliamo direttamente dal seno. Le peripezie dei protagonisti di quelle avventure dovrebbero essere un viatico per un’età adulta più consapevole. Invece si corrompono durante la crescita, trasformandoci passivamente in narcolettici di vedetta che scrutano l’orizzonte aspettando la sagoma di un destriero bianco. L’inanità e la resa sono solo alcuni dei frutti che questo incantesimo rimbambente produce sulle nostre anime assetate di balli al castello.

Grimmless. Senza Grimm in un paese che sembra ancora obnubilato dalle favole di chi fa promesse shock. Siamo un paese che non vuole crescere?

Viviamo in uno Stivale che continua a propinarci fandonie, senza mai farci vedere le dimensioni e i contorni del bosco spaventevole che ci avvolge. I giornali, la tv, la classe politica veicolano le informazioni costruendo un mondo parallelo e fasullo in cui cerchiamo di rincorrere e omaggiare i totem che ci vengono inventati per essere adorati. Siamo un paese che vuole nascondersi, che ha paura dell’altro, di pensieri non omologabili. Siamo come la grande luce che viene percepita dai risvegliati dal coma; la stessa luce che seduce e attira i performer di Grimmless: un rassicurante abbraccio verso il nulla, incuranti della devastazione che sempre più ci sta circondando.

Alternative ai fratelli Grimm? ricci/forte?

Lasciamo da parte le storie. O raccontiamocele come carburante per affrontare i progetti che tali fantasie partoriscono. Rimbocchiamoci le maniche e imbracciamo la bacchetta magica custodita tra le nostre costole. ricci/forte vogliono solo ridestare le schiere di belle addormentate che, senza accorgercene, siamo diventati.

Trasgressivi. Estremi. Surreali. Visionari. Destrutturanti. Feroci. Enfants prodiges della drammaturgia. Mille modi per parlare di voi. La solita esigenza di dare un'etichetta spesso a qualcosa o qualcuno che non la vuole o non può avere, come l'infinito del vostro lavoro. Chi sono o chi non sono ricci/forte?

Questa patina di trasgressione ci viene regolarmente spalmata sopra come nutella sul pan brioche: è la “sindrome dell’archivista” lo sport più praticato sul territorio italico. Si ha paura del nuovo, si teme la diversità. Viviamo in pascoli rassicuranti e quando dall’orizzonte giunge un refolo dalla temperatura non percettibile, invece di lasciarci abbracciare, si tende a rifugiarsi nelle proprie tane. Sicuramente non abbiamo e non vogliamo farci attribuire alcuna valenza eversiva. Noi amiamo provocare una conversazione intima tra i nostri performer e lo spettatore; siamo solo portatori sani di visionarietà, trionfo dell’immaginazione; tornado che fa a pezzi le conventicole artistiche, i gusti corrotti dalla tv, i vecchi Mangiafuoco dalle idee di calcestruzzo che ancora credono di avere potere culturale e lentamente affondano nella malta di un Teatro che ormai è cambiato. Insetti fuori catalogo, poetici quanto Charlot e sarcastici come Groucho Marx, siamo in transito su un bus affollato e, guardandoci intorno, speriamo di non arrivare mai al capolinea.

Mirò parlando delle sue sculture diceva che il suo scopo era quello di provocare prima una reazione fisica e poi una emotiva. I vostri spettacoli si può dire che siano come una scultura di Mirò. L'impatto è forte. Siete un'opera d'arte contemporanea?

Siamo il tempo presente, così affollato di stimoli, di segni e così ostinatamente curioso di scavalcare i perimetri consueti. L’arte oggi non può subire i limiti di mortificanti aree, come quelle destinate ai fumatori nelle stazioni ferroviarie. La cultura si respira, si divora, si metamorfizza incessantemente accanto ad una maturazione individuale. Se esiste una forza d’urto nel nostro lavoro è sicuramente fratello di una volontà di condivisione, utilizzando concetti che vengono organizzati in una struttura estetica che permetta loro di trasformarsi in supernove.

Il corpo nudo vissuto in scena è anche un modo per dire che c'è un analfabetismo fisico? A volte ci dimentichiamo di avere un corpo che sente e che vive.

Generazioni di teatro di parola hanno dismesso l’uso del corpo. Anche fuori dai palcoscenici il corpo viene utilizzato come gruccia per indossare moda, per sentirsi accettati, occultando il vero significante di noi che resta l’apparato fisico. Una macchina che si esprima alla stregua di un testo, anzi, grazie alle sue potenzialità, accenda l’inesprimibile laddove la pupilla naturalistica delle cose mortifica la creatività, produzione di una testa che troppo spesso viene esonerata da ciò e relegata a produrre suoni inanellando vocali e consonanti il più possibile rappresentative di uno stato psicologico. Per riprodurre la morte scimmiottando un personaggio. Il corpo non mente, esplode di vita e rivela con una potenza deflagrante quella zona d’ombra che nessuna parola è ancora riuscita ad illuminare.

Nei vostri spettacoli, tra il pubblico, è accaduto di tutto: svenimenti, gente che si indigna, che urla, che vi adora e che si strappa i capelli. Chi è il vostro pubblico? E come è la vostra esperienza all’estero?

In questa inesausta ricerca di riattivazione, di progressivo ritorno dal coma dello spettatore passivo, proviamo a sondare circuiti emotivi che probabilmente destabilizzano innescando reazioni altrimenti dimenticate in uno spazio adibito a cultura nel migliore dei casi, o intrattenimento nel peggiore. Un distillato alchemico che trasversalmente attraversa reni, fegato, neuroni e ventricoli di una platea che, nonostante le differenze di formazione o anagrafiche, registra un moto sussultorio che si aggancia alle proprie mancanze, alle rese, a quell’età dell’oro che abbiamo smarrito. Perdita di sensi, raccapriccio o adesione commovente sono dimostrazioni che il contatto sta avvenendo, il gancio empatico si è introdotto sotto pelle e ha generato un risultato. Tornando a casa, in un lento rilascio graduale, il lavoro continuerà a muovere e provocare elaborando quel viaggio auspicabile al centro di noi che è alla base della nostra indagine. Una traiettoria che trascende le barriere linguistiche, dal momento che anche fuori dal nostro paese, nei luoghi in cui il nostro lavoro è stato visto, da New York a Mosca, la scoperta imprevista, sulle assi di un palco, di un inconscio vitale è stato salutato come un incontro affettuoso tra vecchi amici che non si rivedono da vent’anni.







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