CRONACHE DI UN ORDINARIO GIALLO PROVINCIALE
Parte prima
di Chiara Ferraris e Claudio Di Tursi
Il silenzio dell’alba, quella domenica mattina, era rotto da due rumori inquietanti: il borbottio del motore sbiellato della Panda di servizio, che disperata arrancava sulla strada per Piccarello, e lo sciabordio del torrente Sardorella, che si era ingrossato a dismisura a causa della pioggia caduta incessantemente durante la notte e che ancora non accennava a fermarsi.
Il parcheggio riservato alle auto della municipale dava proprio sull’alveo del torrente. Appena sceso dalla macchina mi resi conto che, se avesse continuato a piovere così per un’altra ora, il Sardorella sarebbe esondato. Una cosa era certa: nella migliore delle ipotesi, nei prossimi giorni la Ferraris ed io ci saremmo dovuti occupare delle frane.
L’equazione perfetta era la stessa da anni: autunno, piogge, frane.
E il turpiloquio della Ferraris.
Entrai in comune per prendere la pistola dall’armadietto blindato, come facevo sempre prima di iniziare il servizio. Non ero certo esaltato come la Ferraris, che andava al poligono almeno due volte al mese e teneva l’arma sotto il cuscino “che non si sa mai”, ma me la cavavo, all’occorrenza.
In prossimità dell’androne delle scale, c’erano i volontari del COC, il Centro Operativo Comunale, riuniti per l’allerta meteo: lo stesso motivo per il quale la Ferraris ed io dovevamo lavorare, quella domenica di ottobre. Mi domandai se anche lei, come me, tutto sommato non fosse contenta di quel servizio che avrebbe spezzato la monotonia di un’altra domenica grigia e solitaria.
Notai subito l’assenza del sindaco, cosa del tutto insolita. Il ragazzo, mi piaceva chiamarlo così data la differenza d’età, era sempre sul pezzo.
«Ha voluto andare a fare un sopralluogo da solo» mi spiegò uno del COC, soprannominato Gebbu da tempi talmente immemori da non ricordare neppure il perché.
Il suo tono aveva un non so di che di infastidito, che cercai di smorzare con una battuta, tra le più tristi del mio repertorio, ma che solitamente suscitava risate fragorose da parte dei più: «Sarà andato a tenere la manina a qualche tardona che ha paura del temporale...».
Ottenni l’effetto desiderato: era facile ironizzare sul nostro sindaco, Arnaldo Panna, un bel ragazzo, uno sportivo sempre abbronzato, con gli occhi verdi contornati da rughette malandrine e denti bianchissimi. Il sogno di tutte le paesane che lo avevano votato in massa alle elezioni del 2018.
Come sempre, scrutai la reazione della Ferraris, per capire se anche lei, sotto sotto, non avesse subito il fascino del nostro primo cittadino. Era un improvviso arrossamento, quello che vedevo sui suoi zigomi perfetti? Abbandonai subito le assurde farneticazioni che la mia mente bacata aveva partorito, misi la pistola in fondina e uscii di corsa sparando un “ciao” a 70 decibel verso i ragazzi del COC, scimmiottando la Regina Elisabetta con il gesto tipico della mano per strappare ancora una risata che non tardò ad arrivare.
Erano da poco scoccate le sette e fuori era ancora buio.
«Caffè?» chiese la Ferraris, mentre si allacciava il cinturone, per fortuna senza commentare nessuno dei miei stupidi teatrini, sebbene i suoi occhi di ghiaccio lasciassero intravedere un qualche pensiero non lusinghiero nei miei confronti. Chissà, forse se avessi smesso di fare il cazzone, la Ferraris mi avrebbe guardato con occhi diversi…
«Quindi, società?» proposi, come se avessimo alternative.
Feci per riaprire bocca, ma lei, infine, decise di scoccare la sua freccia: «E, ti prego, evita la solita battuta sulle tette della Deborah. È stupida e sessista».
Annuii debolmente e ripartii.
«E taglia, passando da Beleno» aggiunse lei. Un altro colpo basso. Una delle strade più brutte del comune, stretta, piena di curve e di buche. La Ferraris si vantava di farla in salita e in discesa senza mai sfiorare il freno, solo giocando di marce. Io, invece, ero pessimo. Sapevo che era un momento in cui la Ferraris amava sfatare i cliché della “donna al volante, pericolo costante”, mentre un uomo è un rallista assicurato, ma quanto avrei voluto, per una volta, che almeno un cliché, nella nostra strana coppia lavorativa, fosse vero.
«Frena, cazzo!» urlò improvvisamente. Una famiglia di cinghiali stava attraversando la strada e si era bloccata di colpo, abbagliata dai fanali. Appena spensi i fari, si dileguarono.
Fu quando li riaccesi, che lo vedemmo.
Uno stivale di gomma giallo spuntava dal cespuglio dentro il quale erano scomparsi i cinghiali. Scendemmo dall’auto di corsa, inzuppandoci immediatamente, dato che la pioggia non accennava a diminuire. C’era qualcuno tra quei cespugli e quel qualcuno era riconoscibilissimo, nonostante il cranio fracassato, lasciandoci senza parole e senza fiato.
Arnaldo Panna, il nostro sindaco, il bel ragazzo con l’occhiolino facile verso ogni donna del comune, il politico che aveva sbaragliato ogni rivale alle ultime elezioni, l’uomo presente in ogni situazione di difficoltà del nostro territorio giaceva supino in mezzo ai rovi, barbaramente assassinato. Dalla ferita usciva ancora sangue, segno che era stato colpito da poco. La mano destra era chiusa a pugno e stringeva dei fili d’erba. A nemmeno un metro di distanza la grossa pietra sporca di sangue con la quale qualcuno aveva compiuto l’efferato omicidio. Nella tasca interna della cerata, il cellulare del sindaco aveva iniziato a squillare o, forse, non aveva mai smesso.
L’omicidio sconvolse il paese. Non c’era mai stato un sindaco amato come lui. Non solo eravamo tutti rattristati dalla perdita, ma increduli che qualcuno potesse covare un odio così forte nei confronti di Arnaldo, tanto da ucciderlo. Era un politico, sicuramente non piaceva a tutti, sebbene piacesse a quasi tutti, ma il desiderio di assassinarlo… quello era davvero incomprensibile.
Ci vollero settimane, prima di provare a riaffermare la routine del paese. Neanche le tette della Deborah attiravano più battute e lei mi guardava, a ogni caffè, sperando che io ne tirassi fuori almeno una, possibilmente di pessima qualità.
Ero seduto alla società, quel tiepido giorno di novembre. A farmi compagnia, nella mia pausa pranzo, un libro da leggere e i fantasmi di quanto accaduto al povero sindaco.
Le indagini, al solito, brancolavano nel buio come cani da tartufo ciechi. Non erano state trovate tracce, a causa della pioggia incessante che tutto aveva lavato via nel giro di poco e la pietra sembrava aver levitato fino alla testa di Arnaldo per poi abbattersi su di lui come guidata da un incantesimo.
Vidi la Ferraris entrare nel bar, salutare distrattamente gli avventori, qualcuno sollevare un bicchierino di bianco nella sua direzione, per poi raggiungermi, lanciando la pistola sul tavolo, con una mossa da film americano.
«Che hai?» chiese, sedendosi e afferrando la mia tazzina, dalla quale trangugiò il resto del caffè: «Non capisco per quale cazzo di motivo non ci metti un po’ di grappa!»
«Perché siamo in servizio, Ferraris» risposi, allibito dalla sua totale incapacità di attenersi alle regole.
«Minchiate!»
«Comunque, cosa vuoi che abbia? Sono amareggiato per la storia di Arnaldo».
La Ferraris prese la pistola tra le mani e me la puntò addosso, come se prendesse la mira.
«Sai benissimo cosa dobbiamo fare» sillabò, mentre io cercavo di allontanarmi dal suo mirino, vagamente inquietato dal suo comportamento.
«La volta scorsa abbiamo risolto il caso per una questione di fortuna. Non siamo dei veri investigatori, lo sai».
«Le botte di culo capitano, nella vita» replicò lei.
«Cosa intendi dire?»
«Intendo dire che la polizia ha già vagliato tutte le possibilità. Arnaldo aveva una vita esemplare: tutto moglie, comune e chiesa. Non un’amante, nemmeno una simpatia platonica, non un nemico, neppure uno stronzetto che ce l’avesse con lui dalla quinta elementare. Capisci? Passava pure le verifiche agli sfigati. Era un santo. Non ha ombre nella sua vita. Vogliamo parlare di un raptus? O di uno scambio di persona?» spiegò la Ferraris. Mi stupì vedere quanto si fosse informata. Possibile che il suo interesse verso l’omicidio avesse fondamenta personali? I suoi occhi di ghiaccio non lasciavano trasparire nulla, in merito.
Si alzò in piedi di scatto, fece girare la pistola intorno alle dita, poi la rimise nella fondina, come nelle migliori tradizioni western.
«Spolvera il tuo trench, Di Tursi. Dobbiamo indagare» concluse.
«Non siamo all’altez…» tentai di ribattere, ma lei mi bloccò: «Smettila di leggere le tue cazzate e facciamo qualcosa di serio».
Mi aggrottai, stringendo il libro al petto: «”I miserabili” di Hugo non è una cazzata. È un capolavoro».
«Finalmente, l’hai detta, una parolaccia!» sorrise trionfante la Ferraris.
«Perché leggi una roba che si chiama “I miserabili”? È ovvio che non ci sia niente di esaltante» riprese il discorso la Ferraris, mentre ci spostavamo verso l’ufficio in auto, con lei al volante.
Non voleva più che guidassi io.
«Guarda cosa cazzo è successo l’ultima volta che hai guidato tu: è morto il sindaco!» continuava a ripetere e io continuavo a sostenere che la morte del sindaco non fosse collegata con la mia guida impacciata per le strade strette del comune.
«Ferraris, dovresti tentare con Hugo. Non è solo un romanzo: è un intreccio di filosofia, storia, religione… è una delle letture più appaganti…»
«Sì, sì, vabbè. Dimmi cos’hai scoperto sul suo profilo Facebook. Lo so che ci hai guardato».
Sollevai il petto come un gallo in calore. La Ferraris sapeva delle mie abilità informatiche, senza che io gliele avessi mai mostrate.
Non posso dire che fossi un vero e proprio hacker, ma avevo le mie abilità, ero un mago dell’OSINT, ad esempio, l’Open Source Intelligence, la ricerca e la correlazione tra loro di informazioni da fonti aperte. Ah, se mi avessero preso alla Postale…
«Allora, cos’hai scoperto?» insistette la Ferraris, saettando su per una stradina sterrata che non sapevo nemmeno esistesse. Tra un sobbalzo e l’altro, tenendomi a qualsiasi cosa che mi desse la sensazione di stabilità, cominciai a spiegare.
«Pubblicava solo post legati al suo ruolo di sindaco: articoli, eventi del comune, cose così. La cosa più pericolosa che ho letto è l’orario sbagliato dell’ultima processione».
«Questo paese ha una processione al minuto» commentò la Ferraris, per poi continuare: «Comunque, Di Tursi, non raccontiamoci cazzate, i suoi post su Facebook li può leggere chiunque. E commenti ad altri post? Messaggi privati? Amicizie dubbie?».
Dondolai la testa, in parte scettico. Non ero sicuro che quella fosse una pista sensata. Forse stavamo sprecando energie dietro i social, o forse stavamo sbagliando del tutto volendo mettere il naso in una questione del genere.
«È intervenuto in modo molto schietto in sole due conversazioni su alcuni gruppi. Forse la prima è quella più promettente».
La Ferraris diede un’accelerata, improvvisamente rianimata dalla notizia.
C’era stato un momento critico, nella carriera del sindaco, un momento in cui la sua figura quasi divina aveva traballato come un ragazzino alla prima sbronza.
La questione del campo nomadi. Era successo l’estate prima: un gruppo di nomadi, forse giostrai, si era stabilito alle porte del comune, ma su suolo fuori dalla giurisdizione di Panna. Le lamentele erano iniziate alle prime roulotte comparse nello spiazzo che un tempo era destinato agli autobus dismessi. Ma erano, appunto, solo lamentele di chi viveva nelle vicinanze. Poi i nomadi si erano allargati e le lamentele anche.
Era nato un gruppo sui social, “Via i nomadi dal nostro paese”, che aveva iniziato una raccolta firme on-line. E lì, il sindaco, che non aveva grande voce in capitolo, essendo territorio fuori dal suo controllo, era intervenuto pesantemente, chiedendo di evitare post razzisti e diffamatori e proponendo un incontro con i nuovi arrivati. Insomma, voleva farlo diventare un esperimento sociale, un sistema per abbattere i pregiudizi sui nomadi.
«I commenti sulla proposta di Arnaldo sono molto aggressivi. Lo hanno addirittura minacciato» spiegai alla Ferraris.
Lei tirò il freno a mano, girando velocemente il volante e producendo una derapata sulla ghiaietta del parcheggio che sistemava la Panda proprio dentro le linee disegnate.
«Bravo, Di Tursi. Sai cosa dobbiamo fare adesso?»
«Ho paura di quello che stai pensando».
«Dobbiamo andare a parlare con i nomadi. E con il fondatore della pagina razzista su Facebook».
Scendemmo dall’auto per raggiungere l’ufficio e controllare le solite tre o quattro multe che trovavamo ogni pomeriggio sulla scrivania.
Aprii la porta dell’ufficio per far entrare la Ferraris, che entrò, lasciando che la porta andasse a sbattere contro il mio muso.
«E l’altra conversazione di cui parlavi?» mi domandò.
«Niente di che, direi. C’è stata un po’ di maretta quando Arnaldo aveva annunciato che avrebbe firmato un’ordinanza per bloccare le campane di una frazione, decisamente troppo rumorose e, soprattutto, frequenti. Spesso suonavano fuori ora. Diciamo che alcuni non hanno apprezzato questo tradimento alle tradizioni del paese».
La Ferraris sollevò un sopracciglio e si lasciò andare a una specie di ghigno che, indovinai, poteva essere un sorriso:
«Andiamo a cercare i nomadi, Di Tursi, che dici?»
«Dico che da quando ti conosco ho costantemente la sensazione di mettermi in un guaio, e il brutto è che la cosa non mi preoccupa!» risposi serio, provocando ilarità nella Ferraris.
«Testa o croce per chi guida» dissi, facendole vedere l’euro che tenevo tra le dita.
«Testa!» esclamò la Ferraris. E mentre la moneta era ancora in aria, continuò: «Testa di cazzo, intendevo! Ti ribalti da fermo in parcheggio e vuoi guidare nella fanghiglia per ben quattro chilometri?»
Guardai la Ferraris spostarsi verso la macchinetta del caffè senza neanche attendere un mio commento. Recuperai la monetina e, prima di destinarla al terribile intruglio sabbioso che usciva da quel distributore malefico, diedi un’occhiata veloce all’ormai inutile responso.
Croce.
Entrammo nello spiazzo su cui insisteva l’accampamento.
L’automobile che ci presentava come “Polizia Comunale” fece avvicinare subito un gruppetto di nomadi dal fare decisamente guardingo. Erano in massima parte donne e bambini e, vedendo i volti timorosi di fronte a due agenti in divisa, la Ferraris decise di rasserenare gli animi con un: «Tranquilli ragazzi, è un normale controllo.»
Si scatenò il panico. Chi cercava di ostacolarci mentre tentavamo di guadagnare il centro dell’accampamento, chi fuggiva verso la propria roulotte, i bambini piangevano tirando la gonna delle mamme e tutti, tutti gridavano.
Stritolai tra i denti: «Ma come cazzo ti è venuto in mente?», cercando di mantenere un’espressione pacifica e imperturbabile, mentre la mia collega incosciente, che tentava di mantenere a bada le persone intorno a lei facendo gesti con le mani neanche fosse un domatore del circo, mi rispondeva: «Tranquillo Di Tursi, è tutto calcolato. E poi non si dice “cazzo”…», trattenendo una risatina.
Finalmente, vedemmo avvicinarsi un uomo tarchiato e visibilmente sovrappeso, che richiamò l’attenzione di tutti. La Ferraris ed io ci scambiammo uno sguardo d’intesa: doveva essere il capo dell’accampamento.
L’uomo sfoderò un sorriso a trentadue denti, tre dei quali d’oro, e prese a parlare con noi amabilmente, rasserenando il resto della comitiva. Adrian, così si chiamava, ci invitò nella sua roulotte. «Sta piovendo, siete zuppi. Entrate, prenderete un caffè, e poi farete il vostro controllo.»
Era chiaramente il tentativo di dare un po’ di tempo ai suoi per sistemare le cose, immaginai, ma noi volevamo solo informazioni e così accettammo di buon grado. La roulotte era molto ordinata, persino pulita. C’era un bel caldo là dentro e l’aroma che usciva dal beccuccio della caffettiera che borbottava sul fornello elettrico era davvero piacevole. Ero sicuro che alla fine del colloquio, per quanto ci aveva messo a nostro agio, avremmo lasciato al capo villaggio più informazioni di quante ne avremmo apprese. Dovevamo stare attenti.
«Allora, come vanno i rapporti col vicinato?» esordì la Ferraris, con la delicatezza tipica di un elefante in una cristalleria.
«Non troppo bene. Ci accusano di ogni cosa, vogliono mandarci via, ma noi qui stiamo bene. I nostri bambini vanno a scuola con i vostri, compriamo nei vostri negozi, che male facciamo?» Adrian sembrava sinceramente addolorato e non credo che avesse studiato recitazione con Strehler al Piccolo di Milano. «Dicono che rubiamo, ci accusano dei furti nelle case, ma poi, quando i Carabinieri scoprono che è stato qualcun’altro, nessuno ci chiede scusa. Noi viviamo col nostro mestiere di circensi. Hanno fatto persino una petizione su internet. Per fortuna il Sindaco del vostro paese ci ha dato una mano. Povero Arnaldo, era proprio una persona buona».
«Avete saputo anche voi, quindi, delle minacce...» tentai, emozionato per essere arrivato inaspettatamente nel punto esatto in cui volevo che andasse la nostra chiacchierata. Il capo dei nomadi stava per rispondere quando fu interrotto dall’apertura della porta.
Una ragazza salì con grazia i tre scalini ed entrò accompagnando il suo buongiorno con un delicato cenno del capo. I lunghi capelli leggermente mossi e castani le cascavano sulle spalle rivelando tonalità di rame diverse a ogni suo movimento. Il volto era asciutto, con gli zigomi alti e pieni; la carnagione scura faceva risaltare splendidi occhi verdi e denti bianchissimi incorniciati da labbra scarlatte. Il vestito che indossava stringeva sui fianchi mettendo in luce forme toniche e perfette, e se avesse abbottonato un bottone in più della camicetta, mi sarei risparmiato un’occhiataccia della Ferraris per il quale ero un “Uomale”, un animale mitologico metà uomo e metà maiale.
«È mia nipote Lavinia», la presentò Adrian «la luce dei miei occhi…»
«A quanto pare non solo dei suoi!» disse la Ferraris, fulminandomi di nuovo con lo sguardo. La giovane era entrata per dire qualcosa a suo zio, una frase talmente inutile che immaginai fosse una sorta di messaggio in codice con cui lo avvisava che nel campo era tutto a posto e che potevamo fare la nostra ispezione senza far troppi danni. In realtà, i primi a sperare di non trovare nulla di sospettoso eravamo proprio noi, che fuori dal confine del nostro comune non avevamo nessuna autorità.
Ci avviammo per iniziare il nostro finto controllo a un paio di roulotte, giusto per non tradire il nostro reale intento, sebbene Adrian continuasse a tergiversare cercando di venderci un televisore che sosteneva essere “nuovo di zecca”. I rintocchi della campana provenienti dalla prima frazione del nostro comune, distante pochi chilometri, ci diedero la possibilità di concludere la trattativa con Adrian.
«Si è fatto davvero molto tardi» tagliò corto la Ferraris.
In procinto di uscire, gettai un ultimo sguardo alla bellissima Lavinia: ne ero attratto, non potevo negarlo, ma era impossibile non esserlo. Aveva la grazia di una ninfa e la spudorata bellezza di una dea. Sentivo di voler catturare ancora per qualche secondo la luminosità che sapeva emanare.
Aveva gli occhi lucidi, colmi di lacrime.
Adrian, vedendo lo sgomento che mi aveva suscitato la vista della nipote improvvisamente rattristata, si sentì in dovere di spiegarmi:
«Quando sente le campane, pensa sempre a sua madre morta. E piange».
Osservai nuovamente la ragazza e intravidi un mutamento repentino nella luce dei suoi occhi, un velo che tentava di nascondere la verità. Un’altra, però. Di sicuro, non quella che credeva Adrian.
FINE PRIMA PARTE
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