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Immagine del redattoreArianna Destito

Omocausto: la deportazione

27 gennaio, il giorno della memoria


Per il Giorno della Memoria 2020, domenica 2 febbraio 2020 all'Albergo dei Poveri di Genova, Arcigay in collaborazione con l’Università degli Studi di Genova presenta per il quarto anno uno spettacolo - “La Zona Grigia” - che vuole essere una riflessione su quello che è stata la deportazione e le persecuzioni patite prima e durante il secondo conflitto mondiale. Attraverso l'emozionante lettura delle testimonianze, con l'ausilio di video ed installazioni, per riportare al centro l'individuo e le sofferenze di cui è stato vittima.


Di seguito il racconto La Deportazione di Arianna Destito, presentato proprio in occasione dell'evento Countdown sul Giorno della Memoria, svoltosi anch'esso all'Albergo dei Poveri il 27 gennaio 2019.



Sdraiati a terra, su questo pavimento sudicio, uno accanto all'altro.

Ho freddo e ogni volta che qualcuno si avvicina mi stringo a me stessa, come per proteggermi.

Ma da chi?

L’uomo anziano alla mia sinistra è quasi nudo, indossa solo una coperta adagiata sulle spalle. Riesce a malapena a coprire le braccia magre.

Biascica parole con la bocca impastata e gli occhi chiusi.

Forse sta morendo, ma lui non lo sa.

In quanti siamo in questa sala d'attesa della stazione?

E perché siamo qui, stipati uno sopra l'altro? Cosa aspettiamo?

Forse saremo una cinquantina. Forse di più. Provo a fare la conta.

Uno due tre...mi sollevo, alzo un po' il capo per vedere meglio.

"Mi fa male la schiena, il collo…"

Una signora mi tende la mano in cerca di aiuto. Ma io, anche volendo, non saprei come aiutarla.

Posso aiutarmi da sola?

Perché siamo qui?

Perché?

Riprendo a contare. Uno, due, tre, quattro...

Lancio uno sguardo intorno che rimbalza pesante sulla massa dei corpi.

Una giovane donna comincia a singhiozzare. Si rivolge agli uomini in divisa che entrano ed escono e scavalcano le persone con indifferenza.

"Vi prego, aiutatemi! Dev’esserci un errore. Mi sento mancare." Si porta le mani al petto, si fa piccola.

La guardano, non la vedono. Passano oltre.

Forse è solo un controllo.

Tra poco ci rilasceranno.

Si. Deve essere così.

Forse vogliono solo spaventarci.

Forse questo è un esperimento.

Ti ricordi?

Lo dicevamo sempre quando eravamo avvinghiate nel mio letto dopo aver fatto l'amore, pelle su pelle, aggrappate l'una all'altra, in cerca d’un appiglio per non perdere nulla di quanto la vita ci offriva. L’istante perfetto, pensavo, mentre accarezzavo la tua testa, i tuoi capelli fitti, spessi come solo i capelli neri sanno essere. Intorno null’altro. Estasi di un sogno surreale.

Lo dicevamo sempre che non si potrà arrivare a tanto. Che non possono davvero perseguitare chi si ama. Non in Italia.

Lo dicevamo sempre che non potevano essere vere quelle storie che si raccontavano sui campi di lavoro. Sull’odio criminale mascherato da ordine morale.

Esagerazioni, dicevo io.

Tu mi guardavi con gli occhi scuri grandi spalancati sul mondo e su di me.

Quegli occhi che mi bruciavano dentro, ogni volta.

Tu sapevi, meglio di me.

Perché ogni momento di gioia si deve pagare così caro?

Cerco di sbirciare fuori da una finestra. Ti cerco. Forse anche tu sei sdraiata sul pavimento, in una sala d'attesa qui accanto. Pensarti fra questi muri, in qualche stanza vicina, mi dà insieme tormento e sollievo.

Ora ci faranno uscire e potrò rivederti.

Sì, deve essere così.

Fra poche ore ci diranno che siamo tutti liberi e potremo tornare alle nostre case.

Eccoli che entrano. Vediamo prima gli stivali, poi le uniformi brune e infine gli elmetti. Cominciano a prelevarci a gruppi. Fra poco sarà il mio turno. Uno dopo l’altro, quelli che vengono chiamati si alzano e li seguono in silenzio. Nessuno ha il coraggio di ribellarsi. Nessuno vuole morire adesso.

Il respiro si fa corto. Vorrei sputare fuori il mio cuore che sembra impazzito.

Ho le labbra e la gola secche. Da quanto tempo non bevo un goccio d’acqua?

E se non fosse un semplice controllo? Se fossero vere quelle voci che circolano, di gente che è scomparsa e non è mai più ritornata?

Ora non respiro più. Mi dico: calmati, non essere stupida.

Fra poco toccherà a me. Cerco conforto nello sguardo di qualcuno, ma trovo solo disperazione. Una madre prova a giocare con il figlio per distrarlo, ma lui non vuole saperne di distrarsi. Piange. È stanco. L'aria è satura di paura. Vorrei piangere anche io ma no. Non lo farò.

Mi domando dove abbiamo sbagliato. Dove ho sbagliato. Perché di certo, se ci hanno scoperto, abbiamo sbagliato qualcosa. E all’improvviso siamo diventate feccia per loro.

Mi chiedo chi ci ha tradito.

Forse non dovevo tenerti per mano quella volta al cinema.

Forse non dovevo guardarti in quel modo quella sera d’estate, quando indossavi il vestito a fiori che lasciava intravedere le tue eccitanti cosce nude, mentre ballavi alla festa del paese. Quanto ti donava! Indosso a me non sarebbe mai stato così bene.

Forse non abbiamo chiuso le persiane quando ci amavamo e qualcuno ci ha visto.

Mi sforzo di capire quando ho commesso l'errore che ci è stato fatale.

Perché devo averlo commesso, un errore. Me lo dicevi sempre di stare più attenta. Eri tu quella assennata, e io la sventata che non riusciva a nascondersi e si lasciava trasportare da quello che sentiva.

Mai mostrare amore, mai un gesto di affetto e di felicità. Mai davanti ai custodi dell'odio.

È successo tutto in fretta.

Non riesco a smettere di pensarci.

Mi sono arrivati alle spalle, i vigliacchi.

Urlavano mentre mi colpivano e mi tenevano ferma in tre.

Sputavano rabbia e libidine quando li avevo addosso.

Ridevano mentre piegavano il mio corpo ai loro istinti animali.

Ho lottato, amore mio. Ho perso. Con loro si perde sempre.

Non dimenticherò mai il fetore di quegli uomini lerci. Mi sento sporca, anche io. Annientata.

Erano compiaciuti quando mi hanno caricato sul camion e trascinato qui come un sacco vuoto e sanguinante.

È stato solo ieri sera.

Mi sembra trascorsa un’eternità.

Ecco. Ora è il mio turno. Siamo tutti in fila e fa freddo. La tramontana sferza i corpi coperti da pigiami e camicie da notte.

Ci stanno portando al binario del treno.

Il treno?! Ma allora è tutto vero.

Davanti a me la madre cerca di tranquillizzare il bambino spaventato, lo stringe a sé.

Anch’io vorrei stringerti a me. Adesso. E per sempre.

Non faccio in tempo a formulare il pensiero che due soldati le strappano il bambino dalle braccia.

Lei grida. Supplica. Mentre il piccolo la osserva con gli occhi vuoti, attonito. Lo portano via, come si farebbe con un fagotto di stracci, finché scompaiono inghiottiti dalla folla. La donna resta lì, con lo sguardo perso, senza fiato, non si dà pace e viene trascinata a forza dentro il vagone del treno merci.

Non c'è neppure il tempo di pensare a quanto è accaduto.

Sento chiudere il portellone dietro di me.

Non c'è più tempo.

È tardi.


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