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Il canto della clessidra



di Antonella Grandicelli


Passano, le ore. Scorrono una sull’altra. Il tempo ha la stessa dimensione del movimento, del silenzio apocalittico di un granello di sabbia che scivola in una dissolvenza perpetua e ripetitiva. Resto fermo, tentando un inganno che non riesce. Resto fermo, ma il tempo non mi asseconda.

Giovedì venticinque luglio A. D. milleduecentonovantuno.

Un’altra ora. La mia mano gira la clessidra.

Osservo il silenzio che si allunga come una nebbia su questo mare immobile. Il ritmo secco della voga ne fa solo gigante l’eco, la voce degli uomini viene fuori dalle loro braccia, irrompe come frustata nell’aria ferma che subito l’assorbe. La terra al nostro fianco è una percezione remota, come un sogno fatto nell’ultimo sonno e presto dimenticato.

Ho il comando di questa nave e vedo trecento occhi che mi guardano, vedo trecento occhi voltati verso quell’orizzonte privo di sostanza che è la mia promessa. Da molti giorni abbiamo passato Gibraltar, la stretta breccia, la bocca che ci ha partoriti fuori dal tiepido grembo delle acque conosciute e ci ha messi in un mondo nuovo. Abbiamo urlato tutti al vento nel momento in cui la nave è sgusciata via dal suo involucro, dal mare nostrum attraversato dai nostri padri. Abbiamo tutti pianto, una rabbia benefica, uno sfrontato terrore. La prora gettata a sud, pronti all’incontro con acque incognite e profonde, vegliando senza sosta all’ombra di notti dalla bellezza crudele, sospinti da venti di velluto. Ho il comando di questa nave e il diritto di trattare con questo Mare Tenebroso l’audacia del mio viaggio. Un mare di cui non conosco la lingua.


Ancora un ultimo granello scivola. La mia mano gira la clessidra.

Da questa mattina non c’è più aria intorno a noi, solo una luce maligna, bianca, che penetra dentro ogni cosa e ne raggiunge le ossa. E questo osceno silenzio.

A lungo, giorno dopo giorno, dolci e vibranti, le onde hanno accarezzato la chiglia, si sono fuse con gli umori di pece e di canapa marcia; la spuma ha gettato piccoli, audaci graffi alla pelle lasciandole sentore di sale. I canti della voga erano pieni, potenti, fatti di voci ritorte come corda per trainare questa galea dentro l’audacia d’argento del vento. A lungo.

Dall’alba tutto è fermo, immobile come il respiro dopo la morte.

Le vele, stanche e vuote, il grinzoso ventre di una vecchia.

Il mare, verde alla bonaccia, un liquido sudario.

Tutto è fermo, tranne il tempo.

Trecento occhi guardano questo immobile delirio senza smettere la voga, trecento occhi trafiggono la mia schiena, la muta assenza del mio gesto. Ho il comando di questa nave e non ho risposte che valichino l’impervia china dei miei denti. Ho il comando di questa nave e non riesco a vedere altro movimento che l’inabissarsi verticale della sabbia dentro alla clessidra.

Le mani tremano, i polsi sentono il flusso del sangue che preme, le tempie serrano pensieri scomposti come inutile fumo disperso. Questo è dentro. Fuori la paralisi, il vuoto.

Un granello dopo l’altro, guardo il tempo che si scioglie. Sferiche, le particelle seguono la curva sinuosa dell’utero di vetro, si adattano con opaca quiete alla circonferenza che si assottiglia, stringe il flusso, lo riduce ad un’urgenza che sia fa capillare e raccoglie i resti fino all’ultimo, pallido granulo, ingravidando un nuovo utero, un nuovo tempo. Caduto l’ultimo, l’istante si fissa.

E la mano, con gesto autonomo, rivolta le sorti nell’ennesimo baratro da riempire.



Allargo davanti a me portolani e pergamene di luoghi e di mari prima di qui. Li osservo e guido il dito con impassibile nostalgia, lungo ricami di coste, porti e città. Janua, Marsalha, Tarragona, Almeria, Ceuta. Venti favorevoli o contrari, vortici e pericolose secche, punti d’approdo. Mercati e mercanti, sudice taverne, chiassosi angiporti. Tutto è rimasto indietro, tutto è solo ricordo. Voci e lingue che ho sempre portato alla bocca come cibo, di cui mi sono nutrito. Ma l’uomo non si basta, è ingordo, avido di nuovi sapori. Non mi sono fermato. Ho scrutato il fondo sporco dell’orizzonte, gli ho dato la forma dei miei desideri, dell’ambizione che mi cinge i fianchi in un abbraccio lascivo. Siamo uomini e il nostro destino è percorrere il mare finché ce n’è. Chissà quali strane città s’innalzano oltre le montagne d’acqua. Chissà quali popoli le abitano, le percorrono, le infiammano. Ricchezze di metalli più duri del ferro, più brillanti dell’oro, pietre e coralli e smalti, essenze e fiori e piante mai viste. Essere il primo, questa è la meta. Posare il piede e battezzare quel nuovo orizzonte. Scrivere nuove pergamene, nuovi portolani, riempirli di luoghi sognati, scoperti, conquistati. Tutto questo è il sogno, dove ciò che era fino a ieri oggi è muto, spoglio. Richiudo piano quelle vecchie pergamene perché parlano una lingua inutile e nulla hanno da dire al mio desiderio.


Tendo l’orecchio. Non si sente nemmeno il fruscio dei remi nell’acqua, è come se fossero immersi in una sostanza collosa che si appiccica e rende sempre più duro l’avanzare. Le voci dei rematori sono spente. L’accusa che il silenzio si porta dietro mi entra nelle narici, un veleno. Cantate bastardi, remate e cantate, stupidi schiavi dell’onda. Le braccia conducano il remo, il canto lo guidi nell’acqua, a forzare la resistenza del mare come coltello che affonda nella carne. Sventrate questo solido mare, bastardi, ricordategli da dove veniamo e che cosa portiamo con noi.

Si rialzano le voci, il canto s’impenna, ma è freddo, meccanico, privo di passione e d’anima. Ho dovuto ricorrere a schiavi barbareschi per riempire questa galera. Nessun buonavoglia ha voluto seguirmi fin qui. Troppa paura riflette lo specchio dell’ignoto, troppa perché sia sopportabile da una mente legata alla terra. Nulla devi avere da perdere per gettarti tra le fauci di un miraggio, né una vita, né un nome, perché più procedi nel viaggio più si scolorano entrambi, si sfumano i loro confini, pallidi e irriconoscibili tra giorni e notti senza fine.


Vedo il frate che mi osserva con i suoi piccoli occhi da sorcio. So che di nascosto bestemmia la mia arroganza, ma prega, continua a pregare perché non vacilli. Mi verso un boccale di vino, l’ultimo rimasto e lo sfido. Frate, non credi che Dio ci guidi in questo immenso inferno d’acqua? Non credi che sia il suo sorriso benevolo quella curva tremula e lontana che continuiamo ad inseguire?

La mia bocca si piega, s’incrina in una smorfia di raccapriccio. Non è più vino, ma aceto, anche l’ultima sacra preghiera si è corrotta. Sputo e inghiotto la rabbia, sputo e inghiotto l’attesa. Frate, non vedi l’enorme disegno di Dio nelle stelle della notte che ci parlano? Non vedi l’invincibile forza del suo disegno nel mio braccio che punta l’orizzonte?

Il frate volge via lo sguardo da me con sprezzo celato da mite compassione.

Frate, ho il comando di questa nave perché io non prego Dio, lo interpreto; ho il comando di questa nave perché io non aspetto Dio, lo anticipo.

Abbassa la testa e lo sento mormorare una litania stanca, il brontolio di un tuono lontano.

Taci, frate, taci, sono le tue preghiere ad allontanare i venti, a cucire mare e cielo in una rete senza maglie. Vuoi convincere Dio che siamo deboli, un banco di pesci impauriti che scheggia l’acqua attorno a sé in mille direzioni, ma non è così. Nella mia bocca c’è il fiato dell’indovina che scruta il futuro e il mio cuore ha i denti dello squalo.

La clessidra deglutisce l’ultimo granello, ancora una volta.


Il sole ha raggiunto lo zenit, il cielo è bianco gesso, polvere d’ossa, l’aria immota. Guardo l’acqua e la vedo tersa e liscia come uno specchio che riflette un altro viaggio sotto di noi: un’altra chiglia, altri remi, altri uomini dallo sguardo velato e dai crani scoperti, che vogano, vogano con un ghigno di perdizione tatuato sulla faccia. Ed io che comando quell’altra nave, con un sudore nero che mi cola dalle tempie e diventa un pianto che mi acceca gli occhi. Guardo quell’acqua di vetro e vedo un viaggio senza una fine, senza un tempo a cui ancorarsi, vedo il giorno e la notte che s’invertono come un enorme clessidra e noi, sottili granelli di sabbia, che continuiamo a precipitare.

Fuggo veloce lo sguardo da quello specchio maligno, da quel tempo futuro che non voglio immaginare. La mano prende la clessidra. Trema e lascia la presa. La clessidra cade. S’infrange il suo corpo con suono sottile, proietta piccolissime schegge di vetro che luccicano e la sabbia cristallina si sparge sulle vecchie assi ai miei piedi.

Il tempo ora è fermo, bloccato, infinito.

La sabbia disegna ai miei piedi la geografia di tutte le mie paure.

La voga si interrompe all’unisono, le labbra del frate si mutano.

Da dietro le mie spalle, un refolo d’aria si insinua silenzioso tra le mie gambe, incontra i granelli caduti e come un soffio delicato li sospinge via, disperdendoli.


La luce si fa più mite, più torbida. Il cielo si ammala di giallo, una cancrena secca ne tinge improvvisa strati compatti di cirri. Un suono sibilante ed oscuro mi giunge da quel nulla dove credo sia la terra che avevamo imparato a costeggiare, ma non vedo cumuli né nere tempeste all’orizzonte. Un accenno d’onda si affaccia sulla pelle tesa del mare, la increspa come fa un brivido, appena. Ne arriva dietro una seconda, una terza. La chiglia comincia gemere, sente il piacere della spuma che ricomincia a lambirla, sente l’urgenza della navigazione che torna a premere sulle sue assi. S’incurva la schiena della vela, schiocca, si tende.

Irrompe la mia voce dalla gola, conquista il palato, i denti, la lingua e si getta nel miracolo. Che sia bastato uccidere il tempo per far ritrovare forza alla nostra illusione? Che sia bastato mandare in frantumi l’orrido canto della clessidra per riportarci un passo avanti a Dio? Cantate bastardi, remate e cantate, stupidi schiavi dell’onda. Le braccia conducano il remo, il canto lo guidi nell’acqua, a forzare la resistenza del mare come coltello che affonda nella carne. Sventrate questo solido mare, bastardi, ricordategli dove andiamo e che cosa pretendiamo per noi.

Le braccia degli uomini ritrovano il ritmo, il battito sordo e rabbioso della conquista. Ogni miglio ci farà eroi, ogni miglio ci farà conoscere il sapore del nostro pane. Un leggero pulviscolo dorato si posa sulle braccia, minuscole perle d’oro ricoprono il ponte. Come iridescenti serpenti in preda alla muta, sgusciamo via dalla corrosiva melma del dubbio e alziamo la fronte.


Ma il cielo si fa sempre più scuro, l’aria più spessa e la pelle sente lo sfregio della sua carezza, mentre mille aghi la sfiorano. Gli uomini abbassano la testa, socchiudono gli occhi. L’aria si dimena, si avviluppa, raggiunge la forza di un turbine. Come un’immensa onda, una nuvola di sabbia ocra copre il cielo, lo inghiotte, riduce il giorno ad una notte opaca. Si muove come vento di tempesta. La sento furiosa tra i capelli, la sento ronzare nelle orecchie, sarabanda di vespe ringhiose; mi esplode nel naso, negli occhi accecati, tra le gengive. È fatta di un calore che ustiona, che brucia ogni cosa che incontra. Gli uomini si contorcono alla frusta rovente, gridano, ma ogni gesto è vano. La sabbia riempie loro la bocca, li trasforma in statue dalle pose perverse. La nave, sospinta dai venti rabbiosi, si perde in un moto circolare, si piega sotto il peso di migliaia di libbre di microscopica polvere gialla. È sopra, è sotto, è ovunque, non esiste più dimensione.

Sono in ginocchio, incapace di opporre resistenza. La sabbia sta ricoprendo anche me, presto anch’io sarò pietra. Ho il comando di questa nave che sta cedendo all’abisso. E non posso nemmeno regalare lacrime a questa mia sconfitta.

La sabbia ci inghiottirà, così come già ci ha inghiottiti il tempo.

Non posso resistere oltre, la mia pelle è già polvere. In questa oscurità d’oro, sulla soglia della mia disfatta, un ultimo suono mi raggiunge, perfetto, delicato, impassibile ed eterno: la voce di Dio. O forse, solo il mirabile canto della clessidra.




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