di Amalia Patrone
Simone è sempre stato un ragazzo taciturno, la prima parola, infatti, la disse a sei anni.
Michela, sua madre, non pensava fosse normale. Quello che non sapeva però era quanto sarebbe cambiato, per lei, il significato della parola normale.
A tre anni il mutismo di Simone fece scricchiolare la famiglia. “Amedeo c’è un problema”, disse Michela, “Mio figlio non è stupido”, rispose lui. Dieci anni prima, stupidi e handicappati venivano spediti al Cottolengo, la discarica dei diversi.
Poi Amedeo lo accettò e chiese il divorzio. Mentre in cucina volavano oggetti e parole, Simone rimaneva ore davanti alla televisione, ripeteva i gesti meccanici dei personaggi Disney, o dei cartoni Hannah-Barbera. Così imparò a tirarsi le cose in testa, per comunicare.
Michela affrontò il divorzio scopandosi l’avvocato di Amedeo.
Amedeo diventò muto come Simone, fino a sparire del tutto.
Le maestre rassicuravano la madre, ormai rimasta sola. È normale, dicevano, e Michela pensava a quanto fosse normale suo figlio che rifiutava in silenzio di togliersi il pongo dalla fronte.
“Different but not less”, un cartello che Michela lesse di sfuggita tre anni dopo, su uno stand bianco. Intorno c’erano donne e uomini che consegnavano dépliant e ragazzi seduti che guardavano per terra. Riconobbe quello sguardo perso, quel modo di piegare la testa da un lato.
I diversi ma non inferiori, sono gli autistici.
Una settimana dopo Simone era seduto su una sedia di plastica blu nello studio di una logopedista milanese, Stefania De Filippi. Michela parlava con la dottoressa, spiegandole come alcuni atteggiamenti strani la preoccupassero, disse proprio così “Alcuni atteggiamenti strani mi preoccupano”.
La dottoressa ascoltò pazientemente, annuì chiudendo gli occhi, sorrise una volta sola. Si alzò tenendo i palmi aperti sulla sua scrivania, poi andò da Simone. Gli domandò tre volte “Perché non parli?” alzando la voce ad ogni ripetizione, scandendo le sillabe ad ogni ripetizione. Simone si agitava sulla sedia di plastica blu e iniziò a tirarsi pugni sulla testa. La dottoressa gli bloccò le mani e allora lui parlò. “No!”, urlò e Michela pianse. La prima parola la disse a sei anni.
L’autismo è un disturbo che colpisce lo sviluppo dei connettori neuronali, con ripercussioni sulle interazioni sociali, nelle forme più lievi, e sui linguaggi verbali, nelle forme più intense.
Dopo quel no sulla sedia di plastica blu, Michela imparò molte cose sull’autismo, cose che per lei divennero normali. I rumori erano quadruplicati, alcuni colori erano difficili, come il giallo. “Il giallo urla”, disse Simone, “il viola ride”. Michela dipinse la sua camera e quella del figlio di viola.
Grazie alla logopedista, appuntamento settimanale fisso, Simone migliorò sensibilmente: i mercoledì della Deffi. In dieci anni il suo vocabolario si ampliò, imparò a leggere e smise di tirarsi le cose in testa. La prima volta che incise il suo nome sulla fiancata dell’auto, nessuno si arrabbiò con lui. Michela incassava ogni miglioramento, fiduciosa nella scienza, nelle terapie, nel progresso. La dottoressa osservava soddisfatta il suo lavoro, questo era il massimo che potesse raggiungere, “Questo è il massimo che possiamo raggiungere”, disse orgogliosa e Michela perse un po’ di fiducia nella scienza, nelle terapie, nel progresso.
Simone imparò frasi fatte e modi di dire, senza mai capire davvero. “Mmh che succede amico?”, lo diceva a sua madre quando la vedeva piangere.
Le interazioni sociali furono un problema più per gli altri che per Simone. Lui regalava abbracci a chiunque, anche a chi poteva fargli del male, come quel compagno delle superiori che diceva di essere suo amico. “Sono tuo amico, Simo” e poi gli spegneva le sigarette sulle mani e rideva con gli altri. Quelle cicatrici rischiarono di mandare all’aria diciotto anni di terapia. Michela chiedeva cosa fossero quei segni, Simone diceva solo che Federico era suo amico, "Lui è mio amico".
Una sera Michela disse a un’amica che se suo figlio fosse stato normale, con tutti i soldi spesi in terapia, avrebbe potuto mandarlo in America, per sempre. Poi la vergogna la spedì in bagno a piangere. “Mmh, che succede amico?”Simone batteva sulla porta del bagno e Michela per un attimo pensò al suicidio. L’attimo dopo pensò a Simone e cosa avrebbe fatto senza di lei. Poi pensò anche a una terza cosa e si vergognò così tanto da iniziare una terapia il giorno seguente.
Sul lettino della psicologa pianse e basta.
Amalia Patrone, classe '95 e quattordici traslochi all'attivo, che mi hanno fatto scoprire e amare diverse città tra la Liguria e la Lombardia. Ho studiato cinema, televisione e pubblicità, tutte cose fighissime che hanno nutrito ed esasperato qualsiasi mia passione per la lettura, la scrittura e le serie tv. Tra le cose che amo: i libri di Carrère, il mio cane sordo, l'uomo che mi sopporta, il caffè e le sigarette.
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