di Antonella Grandicelli
Tawfiq lo seguiva, l’odore sinuoso del soffritto per il tuccu.
Come una promessa si apriva la strada su per i vicoli e si spargeva, un sussurro tiepido: la cipolla, ancora da colorarsi, prendeva il sopravvento, prepotente, aggressiva, ma brunendo lasciava spazio alla dolcezza ingannevole della carota, all’aroma antico del sedano. Poche svolte e si avvertiva nel naso lo sfrigolio crepitante della carne, il suo rosolarsi lucido, il suo chiudersi in una crosta sottile al troppo rapido disperdersi degli umori. Mezzo bicchiere di vino rosso, il denso arrossarsi della salsa e una cottura lenta, lentissima, a godersi ogni istante di calore. Perché, per fare u tuccu come Dio comanda, la lentezza nella cottura è essenziale. Questa era la tradizione, l’unica religione riconosciuta dalla Gina.
“T’ou lì, u Tawfiq. Buongiorno, ragazzo.”
Tawfiq entrò nel retro della cucina fumosa e calda e depositò tutto quello che la Gina aveva ordinato: fagiolini freschi per il polpettone, carciofi per la Pasqualina e ogni bendidio d’erbette per il prebuggion. La Gina, settantasette anni racchiusi in un corpo grosso ed energico di matrona, era la proprietaria dell’Ostaia di Quattru Canti dal giorno del suo primo vagito, figlia d’arte e di laboriosa tradizione.
Che poi era il suo pezzo forte, la tradizione.
In quella che lei considerava la sua unica e vera casa, la cucina dell’osteria, nulla era mai cambiato e nulla doveva cambiare: le ricette si tramandavano ai figli, senza perdere nulla, senza aggiungere nulla. Lo diceva sempre alla nuora, quella schiena dritta della Tognetta che blaterava di nouvelle cuisine e di rinnovamento. Se lei voleva rinnovarsi che andasse in chiesa a confessarsi, che lì, nel suo ristorante, l’unica cosa che si doveva rinnovare era la scorta di Pigato e di Rossese. Era una guerra intestina, la loro, dove classicismo e modernità si sfidavano a colpi di soffritto.
“C’è tutto stamattina? Lo sai che basta che manchi un pezzo e la musica stona. Prova un po’ a suonare l’Aida senza le trombe.” La donna rise e si rivolse alla nuora, che, voltata di schiena, non aveva degnato Tawfiq di uno sguardo. “Tognetta, mescite! Pensaci tu al prebuggion che io faccio un uovo sbattuto a questu figgieu.”
Tawfiq la ringraziò, ma non poteva fermarsi, aveva altre consegne da fare. “Allora ti aspetto all’una, oggi faccio i pansoti magri, che quelli li puoi mangiare anche tu senza che ti facciano la multa.” La risata della Gina, come una carezza ruvida e affettuosa, seguì Tawfiq fuori dalla porta e lo accompagnò su e giù per i vicoli per tutta la mattina, insieme al pensiero del bel piatto di pansoti che lo aspettavano.
Da poco passata l’una, il giovane marocchino si affacciò timidamente al retro dell’osteria, ma, non appena la Gina lo vide, non sentì ragioni e lo portò in sala a sedersi ad un tavolo, schivando con baldanza l’occhiata scettica della Tognetta, che quegli extracomunitari proprio non li poteva vedere. “Ragazzo, non se ne parla neanche, il tuo piatto di pansoti al tavolo te lo sei guadagnato, altroché. Mica come certe bocche che devo sfamare a ufo.” Tawfiq, confuso e riconoscente, si sedette all’unico tavolo libero.
La sala del ristorante era piuttosto raccolta, i tavolini praticamente già tutti occupati. In quel momento dalla porta d’ingresso spuntò un signore con un paio di libri sottobraccio, buttò lo sguardo dubbioso intorno a sé e chiese se c’era posto per uno. La Gina si guardò in giro, ma non c’era più un solo posto libero. Sembrava davvero desolata, il signor Marco era un cliente affezionato e non avrebbe voluto deluderlo. Il ragazzo, che non voleva far perdere un cliente alla Gina, scattò in piedi rapido. “Questo è libero, venga pure.”
L’uomo lo invitò a sedersi di nuovo. “Se per lei va bene, potremmo farci compagnia, che ne dice giovanotto?”
La Gina, compiaciuta come un gatto che fa le fusa, si affrettò ad apparecchiare anche per lui, mentre intorno a loro si diffondevano inconfondibili aromi di polpettone caldo, coniglio coi pinoli, acciughe ripiene, frittata di bianchetti. Praticamente, il paradiso.
Tawfiq e il suo commensale fecero quattro chiacchiere allegre nell’attesa di ricevere il loro piatto, mentre il giovane marocchino sbirciava curioso i libri che l’uomo aveva posato sul tavolo.
All’improvviso, uno dei due uomini seduti a un paio di tavoli da loro cominciò a respirare affannosamente, con suoni rauchi da cane asmatico. Il sudore gli imperlava la fronte alta e lucida di calvizie, mentre la faccia, divenuta paonazza, si contorceva in smorfie grottesche. “Aiuto, aiuto, mio padre sta male, presto, chiamate un’ambulanza, chiamate i carabinieri, sta morendo, aiutatemi.”
I clienti si alzarono rapidi dai tavolini, accerchiando il pover’uomo che smaniava per respirare e si lamentava sibilando con la bava alla bocca, e uno di loro, dichiarandosi medico, lo soccorse solerte. La Gina, che al primo trambusto era apparsa dalla cucina, era rimasta pietrificata alla vista dell’uomo che si tormentava affannato. “Quella donna è un’assassina, una pazza, chiamate subito i carabinieri.”
Il signor Marco, vedendo la Gina sbiancare, intervenne: “Ma che cosa sta dicendo? La Gina un’avvelenatrice? Ma che stupidaggini!”
Il figlio del malcapitato però non indietreggiò, anzi rinfocolò le sue accuse, mentre la Gina, affranta e spaventata, si era seduta su una sedia con lo sguardo fisso e gli occhi atterriti. “E’ questa vecchia megera, vi dico. Odia mio padre perché vuole rilevare questo locale decrepito e farne un vero ristorante moderno.” L’uomo prese poi il piatto dal tavolo e lo mostrò ai presenti. “Questi pansoti sono sicuramente avvelenati. Li stava mangiando quando, all’improvviso, si è messo una mano sul cuore, ha cominciato a sudare e a lamentarsi.”
La gente ora appariva impressionata e guardava l’anziana donna con crescente sospetto. Il signor Marco si avvicinò allora alla Gina, che, ormai ammutolita, sembrava distrutta. Le mise una mano sulla spalla e con tono gentile le chiese se poteva esserci qualcosa di andato a male nei pansoti incriminati. La Gina negò con la testa: uova di giornata, prescinseua fresca e le erbe per il prebuggiun consegnate da Tawfiq la mattina.
Tutti gli sguardi si concentrarono allora su Tawfiq, divenendo ostili. La Tognetta, spuntando da dietro, sibilò torva ed accusatoria: “Eccolo, il colpevole. Te l’avevo detto Gina, che dai troppa confidenza a questa gente. Chissà che cosa ti vendono, cosa vuoi che ne sappiano loro del prebuggiun.”
Il povero Tawfiq non ci capiva davvero nulla e guardava tutti attonito.
Nel frattempo l’uomo, sorretto dal medico, sembrava riprendersi e non essere poi così grave. Il signor Marco allora invitò tutti a spostarsi in cucina e chiese di vedere i resti delle erbette incriminate: bieta, scixerbôa, grattalaegua, boraxe, dente de can, radicion. Le solite, classiche erbette, umili e importantissime. Gli occhi umidi, la Gina le nominava ad una ad una, quasi fossero un tesoro inestimabile che rendeva preziosa la sua cucina così come l’oro fa con i mosaici. All’improvviso, si sfregò gli occhi, inforcò gli occhiali, prese in mano una di quelle erbe, la girò, la rigirò, la portò sotto la luce. Un grido.
“Ma questa non è borraggine.”
Tutti si guardarono stupiti.
“Questa è mandragora e di quella cattiva, questa ti fa dare via anche l’anima. Nascono così vicine, che è facile confondersi, quando si mondano, bisogna stare attenti, attentissimi.”
La Gina alzò lo sguardo, truce e affilato come un’accetta, e cercò la nuora che, rossa e sudata, tentava di arretrare in un angolo. “Eccola lì, la nouvelle cuisine, eccola la grande cuoca. Ma se non sai nemmeno distinguere le erbe per il prebuggiun!”
E con il grosso dito puntato, la sentenza implacabile: “Tognetta, sei la vergogna di questa osteria, tu sei l’assassina di ogni tradizione.”
Il racconto Delitto all'Ostaia di Quattru Canti fa parte della terza antologia di racconti in memoria di Marco Frilli, Tutti i sapori del noir (FratelliFrilli editori) con la prefazione di
Maurizio de Giovanni.
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