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Da Iginio Massari ai Rolli di De André: quando in una città ormai vale tutto



 

di Andrea Acquarone

 

La notizia arriva inaspettata, leggendo la stampa quotidiana genovese, pur da lontano. Lectio magisralis sull’Intelligenza Artificiale, il tema del momento; l’Aula Magna gremita. Chissà quale filosofo è riuscito a portare l’Università, capace di trasmettere agli studenti il dilemma etico cui si confronta l’umanità. Quale scienziato in grado di fare luce sulle implicazioni tra le possibilità dell’IA e il modo di produrre. Quale sociologo o economista, che ne indaghi le relazioni con il mondo del lavoro e i riflessi generali. Harari? Ma va! Massari!

Ma Monica Massari, che insegna Sociologia Generale a Milano? Non che sia particolarmente conosciuta, ma magari... No, no. Filippo Massari, economista dell’Università di Bologna? Ma no: Iginio Massari. Il pasticcere?


Lo studentato genovese lo acclama, la stampa riporta in prima pagina stralci della sua lezione. “Ho provato a chiedere all’intelligenza artificiale di realizzare una crema pasticcera, ma l’ho colta in fallo”. Ne deve passare di acqua sotto i ponti prima che una macchina possa imparare la poesia antica del battere le uova, con quel movimento di polso che si trasmette di generazione in generazione, custodito come un segreto. È il lato umano. Uno sentirà subito la differenza tra un panettone fatto da un robot, e quello realizzato dal “maestro”, titolo che tutti in città si premurano di riconoscere al pasticcere. Che si fa anche sociologo nell’enunciare, vestito come un guru della Silicon Valley, l’importante distinzione tra professione e  mestiere: “per le professioni bisogna essere tutti laureati, il mestiere invece uno lo impara, e ce l’ha per sempre”.


La difficoltà di capire cosa stesse succedendo, in un’istituzione che pure vent’anni fa ho frequentato, porta ad approfondire. Perché invitare Massari a parlare di Intelligenza Artificiale? Vado oltre la parola scritta e affronto le interviste in video. Giornalisti e giornaliste deferenti chiedono all’oracolo, che risponde con eloquio incerto dalla spiccata cadenza dialettale. Per lui l’IA è la crema pasticcera, il maritozzo, e quello che se ne può fare in una ditta come la sua (44 dipendenti, 10mln di fatturato. Ognuno può trarre le sue considerazioni).

Ma chi l’ha invitato? La conferenza è nell’ambito del corso di Luca Sabatini, professore a contratto che si divide tra le diverse facoltà (Economia, Giurisprudenza, Architettura, Scienze della Formazione) in attesa di avere una sua cattedra.  Scarmigliato, poseur come ai bei tempi il Professor Musso, Sabatini è personaggio noto per esser stato scelto dal Comune bucciano come consulente in materia statistica, incaricato di elaborare dati sulla popolazione che contrastino l’evidenza del calo dei residenti. A lui dobbiamo l’argomento sventolato dal Sindaco sulle celle telefoniche, e la meravigliosa situazione conseguente, dove in città chi è a favore dell’amministrazione dice che la popolazione “insistente sul territorio” è aumentata, mentre i biechi bolscevichi occhettiani si fermano al dato Istat, perché sono vetero e ancorati al passato.


E adesso Massari, ospitato dopo gli onori accademici insieme al professore negli studi di Primocanale. Trascrivo stralcio della conversazione.


Massari: “...tutte le attività bene o male cambieranno, ma se l’intelligenza artificiale è utilizzata con intelligenza ne beneficerà tutta la società”.

Giornalista: “Un messaggio importante quello che è stato lanciato ai giovani, che comunque non si sono fatti trovare impreparati, Luca Sabatini, infatti, l’Ateneo è ricco di talenti”.

Sabatini: “Decisamente. Ne sforna e ne ha al suo interno tutta la città nella fascia tra 20 e 25 anni (...) quasi tutta la fascia frequenta i diversi corsi di laurea. Diciamo che all’interno di quelli in cui insegno, che sono quelli che conosco di più, il rapporto con Iginio Massari e la sua famiglia, il suo brand, sta diventando solido e produce talenti, produce conoscenza, opportunità di lavoro, di studio”.


Forse con la distanza mi mancano ormai le chiavi per intendere certi passaggi, che invece a Genova vengono percepiti come normali. Un amico vicino alla Giunta mi dice “in una logica di eventi con personalità di vario tipo, ci sta anche lui”. Sono uno snob, insomma. Mi viene in mente allora che tra poco iniziano i Rolli, che ormai sono diventati – non se ne abbia l’amico Montanari – la versione rivolta al patrimonio artistico dello stesso approccio di Sabatini con Massari. I palazzi come opportunità di lavoro, la scuola dei “divulgatori scientifici”. Un approccio che non può che produrre semplificazione e in fin dei conti mistificazione. Viene sempre alla mente Rudolphe Töpffer, nel primo Ottocento: “I palazzi (...) sono magnifici (...) ovunque c'è lusso, bellezza, maestosità, ma più nulla è in accordo con i costumi; sale di consiglio, sale d'aspetto, sale d'udienza per una città, per un popolo che non ha più, ahimè, ricevimenti, udienze, consigli: rovine dorate d'una repubblica illustre, brillante sarcofago d'una nobiltà delusa, sulle quali chiosa l'itinerario e vive il cicerone, come i vermi vivono su ciò che è fiorito, ha prosperato, vissuto!”.


L’edizione incipiente, dedicata a “Sacro e Profano”, “prova a raccontare i contrasti sociali di una città ricca e complessa come Genova, dove un ristretto gruppo di famiglie dalle ricchezze inimmaginabili governava una massa di individui poverissimi”. Ma quando mai!

E Montanari lo sa benissimo che facendo la tara con la realtà comparata degli stati Cinque-Seicenteschi la Repubblica consentiva ai suoi cittadini condizioni esistenziali più che fortunate. Ma tant’è, risulta più facile proporre una visione manichea, cui è piegato anche De André, che nel minestrone pop viene preso, a venticinque anni dalla morte, ed i suoi versi associati a ogni Palazzo, appiattito nel ruolo di cantore degli umili, senza cogliere la complessità del grande borghese genovese che era (“moglie dalle larghe maglie, dalle molte voglie, esperta di anticaglie, scatole d’argento ti regalerò”).


È la necessità della divulgazione che deve fare tutto intellegibile a tutti, e il sostrato scautista degli organizzatori che si riversa in maniera programmatica da sempre sulla manifestazione, e con l’accresciuta sicurezza, ormai in modo conclamato: le giornate dei Rolli hanno questa impronta, del popolare che si ammassa coi suoi piatti di plastica pieni di fritti, i suoi coni gelato, le dita gonfie inciabattate, nei saloni voltati e affrescati, senza poter lontanissimamente immaginare come venivano vissuti. Più che l’apertura alla cittadinanza dei tesori cittadini, sembra un esproprio postumo: gli eredi di quegli “individui poverissimi” che possono finalmente entrare nei locali un tempo utilizzati dalle famiglie di “ricchezze inimmaginabili”. Nessuna comprensione del perché Genova arrivò ad essere capace di produrre quei monumenti. "Genova era allora ricchissima”, come “in quei tempi Gesù era presso Nazareth”. Nessuna profondità, ma tanti fritti, tanta focaccia, tanti gelati venduti. È questo, in fin dei conti, quel che conta. O no.


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