di Daphne Squarzoni
Una folla di matricole riempie l’università con quest’aria sperduta e confusa di chi ancora non ha preso le misure del posto in cui è. Fanno conoscenza, si presentano, leggono i numeri delle aule per scoprire dove sarà la loro lezione. Io li osservo in silenzio mentre cominciano a camminare nei corridoi dell’ateneo. Li osservo da dietro il plexiglass che divide la portineria dal corridoio e mi sento un po’ loro e un po’ qualcuno di vecchissimo. Guardandoli mi rendo conto che quest’anno non tornerò dietro ai banchi con Emma, con Lorenzo, con Lisa o con Raf. Mi rendo conto che il nostro tempo qui dentro è finito e stiamo solo prolungando l’atto finale di questa commedia (finirà bene). Tutti quanti ci sporgiamo sull’orlo del precipizio della vita post studio, guardiamo giù aspettando ci capire se ci sarà un appiglio, un salvagente a cui aggrapparci. Ci specchiamo nelle acque del futuro cercando di indovinare cosa ci aspetta fuori dai contorni definiti di questo edificio a vetri.
E poi ci sono questi qui davanti ai mie occhi che fanno i primi passi in questo nuovo mare, si bagnano appena, testando la temperatura dell’acqua un po’ impauriti da questo nuovo inizio. Tra i nuovi ci sono i vecchi che cercano le aule degli esami, che sanno già dove sono tutti i bagni, che camminano con un po’ più di sicurezza data dall’abitudine. Camminano e vanno anche loro verso il nostro stesso precipizio. Lo spiazzo davanti a me si svuota e mi rivedo camminare assieme ad Emma, più piccole di tre-quattro anni, commentando che la laurea era lontana e avremmo avuto ancora molto tempo. È già finito? Possiamo riavere indietro il tempo speso dietro uno schermo per la pandemia?
Quest’estate mi sono accorta che l’università non dorme mai: ci sono due settimane di chiusura in tutta l’estate. Solo due. Il resto del tempo il dipartimento tiene le braccia spalancate e offre rifugio agli studenti per studiare. Durante il lockdown era tutto chiuso, buio, silenzioso e spento e noi stavamo a casa dietro al computer messaggiando durante le lezioni online per mantenere i contatti come quando si faceva a bigliettini in aula. Non è la stessa cosa. Ci siamo ancorati alle videochiamate, alle chat di Discord, a preparare insieme gli esami attraverso uno schermo, mentre il resto del mondo ci dimenticava come scrive Andreoli nel suo libro: «durante la pandemia, per dire, sono stati completamente dimenticati. Lo stesso destino è toccato ai bambini prima e agli adolescenti poi, della cui esistenza fatta di esigenze specifiche, anche se intempestivamente, a un certo punto dell’emergenza sanitaria ci si era rammentati. Ma degli universitari, tanto per fare un esempio, non ce ne si è preoccupati minimamente, al grido di: “Sono grandi, se la caveranno”». Ce la siamo cavati. Ma a che prezzo?
Guardando queste matricole entrare in dipartimento penso agli anni che non ho avuto e al tempo che è stato tolto a loro. Penso alle lacune con cui dovranno fare i conti adesso che sono in università e nessuno li seguirà come è stato fin ora. «Mi scusi» mi chiama una ragazza bionda. Ha appena conosciuto una sua nuova compagna di corso, si sono presentate davanti ai miei occhi perché nessuna delle due sa trovare l’aula di cui hanno bisogno. «Sa dirci dove è l’aula 007? Quella per il corso di latino».
Sorrido. «Dritto davanti a voi, proprio là in fondo» indico. Mi ringraziano e si avviano.
Care matricole voi non sapete che state per salire sul calvario fatto di declinazioni e professori umorali (e completamente psicopatici). Non sapete che state per affrontare uno degli esami incubo del dipartimento. Guardo le matricole camminare verso il loro nuovo incubo e sorrido forte delle camicie sudate per passare questo esame. «Sono grandi, se la caveranno». Già. Ma a qualcuno verrà in mente di chiederci il prezzo? Oppure rimarranno tutti trincerati dietro al fatto che siamo una generazione debole, che va dallo psicologo per ogni sciocchezza, come vuole la doxa. Siamo una generazione che non ha paura della fragilità, che non si vergogna di mostrarla e di prendersene cura. Siamo una generazione che entra in ateneo con lo sguardo perso e fa amicizia cercando un’aula. E forse è questo che vorrei vedere dentro al precipizio: un mondo in cui possiamo essere fragili senza che ce ne venga fatta una colpa. Un mondo in cui possiamo cavarcela come ce la caviamo in università: facendo squadra. Se penso ai miei esami, non ne ho mai fatto uno da sola: ho sempre avuto Lorenzo, Emma o chiunque altro a cui chiedere consiglio, materiale, o solo un incoraggiamento. Se penso ai miei esami mi scopro a condividere appunti, a raccontarsi le domande, a sostenere persone con cui a volte non avevo mai parlato prima. «Scusami se ti disturbo» cominciano così di solito questi messaggi «Mi hanno detto che hai già fatto l’esame di latino, posso chiederti qualche consiglio?». E se alla fine riuscirò a laurearmi sarà per questo, per tutte le mani tese che ho trovato da amici e da sconosciuti.
«Grazie mille per tutto».
«Figurati, se non ci si aiuta tra noi in uni chi ci dovrebbe aiutare?»
«In questo episodio non succede niente», dice Raf.
«Succedono le matricole», replico mentre ci godiamo gli ultimi raggi di sole in spiaggia.
Con i nostri amici abbiamo pensato di andare in vacanza a lezioni incominciate perché prima, tra lavoro ed esami, non siamo riusciti a metterci d’accordo. «E basta». Alzo le spalle. «E la sanità mentale e gli aiuti in uni. Se ci pensi tu ed io ci siamo messi insieme a colpi di appunti scambiati» dico. Raf annuisce. «Tu ci sarai nel precipizio?» gli domando appoggiando il foglio con l’ultimo episodio.
«Può essere» risponde vago. Raf non promette mai niente che sa di non poter mantenere. «Se la nostra relazione prosegue come ha fatto finora potrei esserci» dice.
«E intanto fino a quando arriviamo?», domando.
«Intanto fino a Natale».
Sorrido. Quando ci siamo messi insieme non ero affatto sicura che sarebbe durata e lui mi dava delle scadenze: «sicuramente stiamo insieme fino a settembre», «fino a Natale», «fino a maggio»… a forza di scadenze siamo arrivati a due anni.
«Che c’è?» domanda con l’ultimo sole che gli passa tra i ricc.i
«Niente, penso di avere un malfunzionamento».
«Perché?»
«Perché l’innamoramento ha una scadenza».
«E non è scaduto il tuo?»
«Non ancora. Tra 8 mesi sarà ufficialmente un malfunzionamento serio».
«Perché?»
«Dicono che l’innamoramento dura massimo 3 anni. Tra 8 mesi saranno tre anni e il malfunzionamento sarà confermato».
Raf ride. «Allora vedremo se funzioni male», conclude dandomi un bacio veloce a fior di labbra. Ho il sospetto di sì.
Daphne Squarzoni, nata nel 1999, laureata in Studi Storici e Filologici, si sta specializzando in Filologia e Critica Letteraria. Dal 2019 porta avanti numerosi progetti didattici nelle scuole
elementari insieme all'associazione Siderea e alla casa editrice Isenzatregua, con cui collabora attivamente e con cui ha pubblicato nel 2022 Piccolo diario della guerra europea del 1914-1915 e nel 2023 Epsodi.
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