Cronache dall'Afghanistan
di Gholam Najafi
con Deepak Unnikrishnan*
Inizio a dipingere queste pagine in occasione del tuo breve soggiorno a Venezia. Per me scrivere è come scalfire una roccia, fotografarne ogni frammento e conservarlo nelle teche dei musei, affinché si trasformino in lontani ricordi. Spero le mie umili parole siano gradite.
Racconto sempre che la gente del mio villaggio purtroppo non ha avuto la fortuna di conoscere il suo poeta. Scrivo solamente il nostro passato e il loro presente. Vive sempre con me, e questo non mi fa sentire mai solo. Vengo da lontano. Sono carico di cose, come una nave cargo sempre in cerca di approdare. Penso che Venezia sia una città giusta per approdare e per riprendere il proprio percorso di vita, ma l'approdo viene rinviato a causa delle onde del mare, quel mare che emana cattivo odore, che deve essere abbandonato. Non ci si può nemmeno tuffare in quel mare. Ma il nostro approdo pian piano si arrugginisce. Solo gli artisti possono dipingere un nuovo approdo nei loro dipinti, solo gli artisti possono compiere un lavoro del genere, un lavoro che dia una grazia. Noi due che cosa possiamo dipingere? Cosa possiamo trasportare sulla riva? Cosa possiamo gridare tra le vie delle nostre case? Quando sono a casa, scendo nelle calli e osservo i canali pieni di alghe, alghe che il mare ha trasportato, staccandole da chissà dove, e la schiuma, che porta via con sé le foglie secche degli alberi.
Ormai sono anni che abito a Venezia. Per me ogni canale è come una vena che fa circolare il sangue nel nostro corpo: permette a questa popolazione di vivere; i canali sono navigabili da chiunque, con qualunque tipo di barca: a motore, a vela e a pagaia con cui ho navigato fino a qui! Non vedremo mai più quel gommone, quella barca che spingevamo, è scivolata nelle profondità dell’acqua, quell’acqua salata come le nostre lacrime. Quando la pioggia cade sul mare penso alle nostre lacrime durante il viaggio nel mar Mediterraneo. Non potevamo sapere le previsioni del meteo, e non potevamo non piangere. L'equipaggio non sapeva della nostra presenza sulla loro nave, dato che eravamo nascosti.
Un passato basato sull'acqua, guardando il cielo e i fari che si accendevano e si spegnevano. Una luce lampeggiante dava il segnale di pericolo e il mio cuore batteva allo stesso ritmo della luce durante il viaggio. La luce era la fonte della nostra esistenza, vivevamo grazie ad essa. Sopra di noi la luna si mostrava come l'anima della notte. Ma la luna è luminosa e speravamo che venisse coperta dalle nuvole: noi avevamo bisogno del buio. Un buio infernale. Spesso capitava che i marinai erano a terra, mentre noi eravamo in mare senza alcuna esperienza, neppure minima, di navigazione: nel passato come nel presente la nebbia oscurava il nostro sguardo.
Ora abito a casa mia, essa è circondata dai muri coperti dalle piante sempreverdi. La mia casa da fanciullo era sempre ricoperta di neve e vedevo le rondini oltre la finestra. Adesso invece, da questa finestra ammazzo le zanzare. Le piante che vedo qui rispettano i ritmi della stagione, sanno aspettare il momento della fioritura.
Il vento soffia tra i canali e le briccole.
La mia casetta ha una porta e due finestre che si affacciano sul giardino, ma nonostante ciò non è così luminosa. Oltre ci sono una fornace, una palestra e una casa di due anziani che non ho mai conosciuto in questi anni. Il mondo è così piccolo e in certi momenti si stringe ancor di più.
La mattina al sorgere del sole esco in giardino, dove è tutto vuoto, silenzioso, quasi sconosciuto. Cerco di trovare ispirazione per i protagonisti dei miei scritti, ma non li trovo, e allora mi avvio verso il faro per osservare la laguna. Tutto è così calmo. Ho bisogno di un mare mosso, una montagna alta, altissima, ma vedo solo la gente che cammina avanti e dietro, e non ho mai l'occasione di parlare con loro.
Su quest’isola, oltre alla mia famiglia, non mi conosce nessuno. Forse sono io troppo silenzioso? Saluto la gente, ma il giorno dopo nessuno mi riconosce.
Anche i nostri incontri fanno parte della nostra vita, incontri che non scorderemo mai, come il nostro pranzo a Mazzorbo da “Maddalena”. Era mezzogiorno, il sole splendeva alto nel cielo. Eravamo all'ombra di un albero di uva passa, tu e tua moglie sorseggiavate un po' di vino prodotto da un vigneto accanto. Io ordinai gli spaghetti al nero di seppia mentre voi una frittura di calamari. La giornata era bella soleggiata e il tempo volava con le nostre chiacchierate, e in un batter d'occhio il sole tramontò. Il vento che soffiava quel giorno ci portava indietro nel tempo. Ognuno di noi parlava della sua fatica, osservando che le navi che approdano in questa città non trasportano armi ma arrivano e ripartono con le persone a bordo. Tutti parlavamo di patria, una patria che non ti appartiene ma che nel tempo diventa cara, impossibile da lasciare.
Lasciando alle spalle le due isole, Burano e Torcello, magnifiche, ci siamo imbarcati di nuovo verso Venezia. Era il tramonto e a quell'ora la laguna di Venezia offre sempre un panorama mozzafiato. Abbiamo incontrato un ragazzino che aveva fame e tu gli hai offerto i biscotti tipici di Burano, i “Bussolai”. A S. Zaccaria ci siamo salutati, io ero rimasto a Venezia e voi vi siete rimbarcati per l’Isola di S. Servolo.
Ricordo ancora che non mi avevi dato il tuo libro “The temporary people” a causa della mia scarsa conoscenza della lingua inglese. Poi l’ho ricevuto ma è rimasto sugli scaffali della mia libreria, a malincuore. In quei giorni ho fatto un grande sforzo a parlare in inglese una lingua che per me è ancora sconosciuta. Ogni volta che guardo il tuo libro mi sento debole perché non riesco a capire bene i concetti. Chissà quanti dolori, quante lacrime, quante sofferenza, quante nostalgia per il tuo paese, per i tuoi parenti ormai lontani si nascondono tra quelle pagine.
L’ultima sera del vostro soggiorno a Venezia, ci siamo salutati vicino il ponte di Rialto, sotto la statua di Carlo Goldoni. Quella sera il cielo era stellato, il Canal Grande era illuminato da ogni lato ed io sono rimasto a Venezia mentre tu sei partito per Abu Dhabi. I nostri ricordi continuano a sopravvivere, sperando in un altro incontro.
Le nostre barche rimangono vuote, galleggiano sull’acqua, ci chiamano e noi non le sentiamo.
*Scrittore indiano
Gholam Najafi è nato in Afghanistan a Ghazni.
Ha trascorso l’infanzia lavorando come pastore e contadino. Dopo la morte del padre, all’età di dieci anni, è fuggito dal suo paese d’origine verso il Pakistan, l’Iran, Turchia, Grecia e infine l’Europa.
Dal 2007 risiede in Italia, a Venezia con la sua famiglia. Si è laureato in soli due anni in “Lingua e letteratura araba-persiana” e si è specializzato in “Lingua politica e economia dei paesi arabi” all’Università Ca’Foscari.
È autore di “Il mio Afghanistan” (Meridiana) da cui è stato tratto un film omonimo, “Il diritto di famiglia in Iran tra le due rivoluzioni” e, "Il tappeto afghano"(Meridiana)
Si dedica a scrivere articoli, racconti e poesie sulla situazione afghana.
Il suo ultimo libro è Tra due famiglie (La Meridiana) .
Le foto presenti nell'articolo sono di proprietà riservata dell'autore.
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