Sylvia Plath, la poesia che taglia
Ieri, 27 ottobre, ricorreva l’anniversario dalla nascita della poetessa americana Sylvia Plath, nata nel 1932 a Boston.
Figlia di un entomologo di origine tedesca, Sylvia Plath rimane orfana di padre all’età di 8 anni e cresce con la madre, con cui avrà sempre un rapporto controverso. Le forti insicurezze che le derivano da questa infanzia psicologicamente complessa – il senso di abbandono, di inadeguatezza, l’ansia per le aspettative materne – si riverbereranno in ogni singolo gesto della sua vita e in ogni poesia che ne sarà testimonianza.
Sylvia è una ragazza dai risultati scolastici brillanti, che ha ambizione ma anche tante incertezze: nel 1950 studia in una rinomata università femminile del Massachusetts e nel 1953 trascorre un mese a New York, dove una forte crisi depressiva la conduce al ricovero, all’elettroshock e al suo primo tentativo di suicidio.
Nonostante questo riesce a laurearsi e a vincere una borsa di studio che la porta sull’altro lato dell’oceano, a Cambridge, dove conosce Ted Hughes, giovane promettente poeta, l’uomo sul quale indirizzerà la sua passionalità, le sue ambizioni, il suo desiderio di perfezione famigliare. Sylvia e Ted si amano e si sposano con la velocità con cui brucia un fuoco. Un fuoco distruttore.
Durante il giorno si impegna ad essere moglie e madre perfetta, a sorridere, a sostenere il marito nella sua carriera di poeta. Durante la notte, sorretta dagli psicofarmaci, scrive: poesie (pubblicate nella raccolta The Colossus), racconti per la radio, un romanzo, La campana di vetro, che ha forti riscontri autobiografici. Ma Ted la tradisce e la lascia, distruggendo così la fragile architettura su cui il suo sogno di perfezione si sosteneva.
Ancora una volta, così come per la morte del padre, chi doveva amarla l’abbandona: le ferite si riaprono, si fanno insopportabilmente dolorose, strazianti. Sylvia s’inabissa in una depressione senza uscita, la cui violenza sarà il pasto con cui si nutrirà l’ultima fase della sua poesia. Fino a quella fine – il suicidio – che lei metterà in scena levigando ogni particolare con quella stessa meticolosità che sempre aveva cercato: il latte pronto per i bambini, la porta chiusa, il gas per una morte pulita. È l’11 febbraio 1963 e Sylvia ha trent’anni.
La poesia di Sylvia Plath, definita “confessionale” per i forti accenti autobiografici, è molto di più del racconto di un’anima turbata. Certo, all’interno ci sono tutti i suoi fantasmi, quelli in carne ed ossa – la madre, il padre, il marito – ma anche quelli che dall’infanzia avevano preso dimora nella sua mente senza più abbandonarla. Un senso profondo di solitudine, il tentativo di riempire tutte le caselle, di rispondere a tutte le attese.
La personalità che di giorno s’impegna minuziosamente ad apparire a suo agio nelle convenzioni in cui la società circoscrive il ruolo della donna – la buona moglie, la buona madre, la brava figlia – nell’oscurità della notte, mastica il suo dolore e il suo senso di inadeguatezza con lucida disperazione, con una poesia caustica, tagliata da bagliori di lucidità pura e da una scelta lessicale che mette a nudo con chirurgica violenza l’oscena commedia del vivere. Quel vivere che per lei non è che tensione verso la morte, luogo della ricomposizione, del compimento.
Gli ultimi giorni della sua esistenza si consumeranno a Londra, in un piccolo appartamento nel gelo di un inverno rigido, le ultime notti nel fuoco di una scrittura incessante, quasi maniacale. Infine, l’uscita di scena: non un suicidio languido e romantico, ma la testa ficcata nel forno, in cucina, il regno della donna, dopo aver preparato la colazione del mattino dopo, ciò che ci si aspetta da una buona madre. Nemmeno sulla soglia della morte, davvero libera dai suoi fantasmi.
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