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ANIMALI NARRANTI: SUL PERCHÉ DELLA NARRAZIONE

"Perché esistono le storie? Perché non possiamo farne a meno?"



Sull'origine, il senso e la natura del raccontare molto si è detto e molto c'è ancora da dire. Dai suoi esordi come essere pensante l'uomo racconta di sé stesso e del mondo che lo circonda. A lungo si è sminuita questa sua facoltà, subordinandola all'avanzamento tecnico e tecnologico all'interno del processo evolutivo. Eppure sono numerosi i dati che attestano quanta parte l'affabulazione o storytelling , prima orale e poi scritta, abbia avuto nella crescita intellettuale e sociale dell'essere umano.


Perché l'uomo ha bisogno di raccontare e raccontarsi? Quale fine si propongono le storie? Perché è importante continuare a raccontare storie ai bambini? La narrativa può aiutarci davvero a vivere meglio la vita reale?


"Tutto ciò che dobbiamo fare è aprire un libro che narri una storia, uno qualsiasi, e prestare attenzione all'effetto che sortisce su di noi."
Jonathan Gottschall

Giovanni Del Ponte, scrittore e insegnante di scrittura creativa, lavora da anni, anche con incontri nelle scuole e nelle biblioteche, per tentare di dare risposta a queste domande. Nel ciclo di lezioni "Animali Narranti"che terrà su Radio Dreamland ci condurrà attraverso un interessante percorso sulle vie della narrazione per aiutarci a scoprirne gli effetti e fornirci strumenti per una lettura più consapevole. Le sue lezioni prendono il titolo da un famoso saggio di Jonathan Gottschall "The storytelling animal" (L'istinto di narrare, Bollati Boringhieri, 2014), declinato però al plurale. Perchè, in fondo, chi ci dice che noi siamo gli unici esseri narranti?


A questo link troverete dunque la Puntata Zero di "Animali Narranti", andata in onda il 1 luglio 2021, di cui di seguito vi proponiamo il testo per permettere a chi fosse interessato di cogliere tutti gli interessanti spunti e i suggerimenti che l'autore ci fornisce.



"Perché esistono le storie? Perché non possiamo farne a meno? Perché una storia che ci ha commosso fino alle lacrime, può aver lasciato indifferenti i nostri amici? E perché va bene così? Buongiorno, mi chiamo Giovanni Del Ponte e sono uno scrittore.


Consentitemi per prima cosa di ringraziare Rosalba Nattero, che mi ha incautamente invitato a tenere questo programma su Radio Dreamland. In Animali narranti parleremo di narrazione, ma anche degli argomenti affrontati nei miei romanzi, come l’ecologia, il bullismo, la comunicazione e il linguaggio, la confluenza tra scienza e spiritualità… Nel mio lavoro mi sono insomma sempre ispirato ad argomenti che mi appassionassero e mi piacerebbe ora approfondirli insieme a voi. Augurandomi di offrirvi innanzitutto suggestivi spunti di riflessione.


In questa puntata numero zero di Animali narranti, ci interrogheremo dunque sul perché esistano le storie e vi accennerò alcune teorie di studiosi e scienziati (pubblicherò una bibliografia sul sito di Radio Dreamland e nel podcast su YouTube). La scintilla che, in particolare, fece scattare in me la curiosità fu forse assistere a tante interviste a scrittori, registi, cantautori e notare che, quando veniva chiesto loro se pensassero che la propria opera potesse fare la differenza, influenzare le vite del loro pubblico o, addirittura, cambiare il mondo, di norma si schernivano, minimizzavano. Sono solo canzonette, no? Col tempo però quell’atteggiamento mi lasciava sempre più insoddisfatto. Finché non cominciai a domandarmi: sarà poi vero che le storie non salvano vite e non cambiano il mondo? Siccome sono pur sempre uno scrittore di genere fantastico, ho provato… a fantasticare su quella che potrebbe essere la funzione dell’Arte, nel nostro percorso di crescita.


Parlerò di queste mie ipotesi nella seconda parte della trasmissione, ma prima vorrei accennarvi alcune delle teorie più interessanti che ho trovato nel saggio L’istinto di narrare, di Jonathan Gottschall, con cui mi sento particolarmente in debito, visto che il titolo inglese del suo libro è The Storytelling Animal, L’animale narrante, appunto. Avrete però notato che ho volto il titolo al plurale, Animali narranti; questo perché ci stava un po’ stretta l’idea degli studiosi che gli esseri umani siano davvero i soli animali a inventare storie. Dopotutto, che ne sappiamo? Prometto anzi che indagheremo al riguardo e, se scopriremo qualcosa d’interessante, ne parleremo nelle prossime puntate…


Comunque, secondo gli studiosi, gli esseri umani, di certo, sembrerebbero non poter vivere senza storie, cioè senza produrre e consumare continuamente affabulazioni, invenzioni, fantasie. Sin da bambini ci appassioniamo al gioco del «facciamo finta che», ci immedesimiamo in personaggi di nostra invenzione, adoriamo i travestimenti, siamo spontaneamente multipli. E, da adulti, anche a occhi aperti elaboriamo una visione della realtà in cui la componente immaginativa riveste un ruolo essenziale. Questa tendenza a fantasticare e a raccontare storie, secondo Jonathan Gottschall, non è un lusso, un piacevole optional per i momenti di relax. Se si trattasse di mero intrattenimento, l’evoluzione l’avrebbe già eliminata come inutile spreco di energia. È stata invece proprio l’evoluzione a crearla, ad affinarla, a renderla indispensabile come una vera e propria dipendenza.


Tale consapevolezza doveva già appartenere a Sherazade, che ne Le mille e una notte riusciva a rimandare la sua condanna a morte incantando il sultano con le proprie narrazioni. Sappiamo benissimo che i racconti che produciamo o ascoltiamo sono fittizi, lo sapeva anche il sultano, eppure ne abbiamo un bisogno assoluto. Perché? Gottschall avanza varie ipotesi. Per esempio, la narrazione consente di scambiarci e di tramandare informazioni fondamentali senza dover attendere i tempi dell’evoluzione. Funge poi da legame sociale. Di più: le storie sono come simulatori di volo o come la realtà virtuale. Siamo programmati affinché, immergendoci in un racconto, i nostri neuroni si comportino come se fossimo effettivamente lì, calati nei panni dei personaggi, a gioire e a soffrire insieme a loro. Ciò significa che possiamo sperimentare situazioni rischiose o paurose, senza correre pericoli nel mondo reale. Un vantaggio non da poco. Inoltre, come sanno i bravi insegnanti, un messaggio, per sedimentarsi nella mente umana, necessita di un coinvolgimento emotivo: in questo, la narrativa funziona meglio della saggistica e, una scuola senza storie, genererà inevitabilmente studenti dalla memoria corta.


Ma come fanno le storie a suscitare quel coinvolgimento emotivo e a farci appassionare? Prendiamo come esempio la storia di un uomo che scopre di avere finito il latte per il neonato. Va a comprarlo, torna a casa e dà il latte al neonato. Ecco, una storia come questa probabilmente non riuscirà davvero ad appassionarci, soprattutto se non siamo diventati da poco genitori… La questione è: perché questa storia non ci appassiona? C’è una trama, ci sono dei personaggi… Non è così scontato il perché non riesca a coinvolgerci. Proviamo allora ad aggiungere qualche elemento: il protagonista è un giovane padre, la cui compagna è ricoverata in ospedale. Il giovane deve comprare il latte, ma, dovendo assistere il neonato, non ha potuto effettuare molte consegne, infatti svolge il lavoro di Rider. Anzi, la bici gli è stata rubata dal figlio del boss locale e deve riuscire a recuperarla, altrimenti resterà senza lavoro e senza sostentamento per il piccolo… Il primo trucco per una storia coinvolgente è popolarla di personaggi in cui ci venga naturale immedesimarci e non c’è modo migliore che sovraccaricare il nostro protagonista di difficoltà, perché è così che, in genere, percepiamo le nostre stesse vite: piene di difficoltà e di prove da affrontare! Conflitto è la parola chiave.


Già nel 1928 Vladimir Propp, nel suo fondamentale saggio “Morfologia della fiaba“, sosteneva che la finzione narrativa si basi sul conflitto. Questo concetto viene però spesso frainteso dagli autori alle prime armi. Sovente i principianti credono che il conflitto cui si trovano dinanzi i loro protagonisti dipenda da un problema o da una serie di problemi. Questo può forse valere per le storie di puro intrattenimento: due avventurieri si battono per procacciarsi un tesoro; dei cavalieri si affrontano in duello per la mano della principessa; 007 deve impedire al dottor No, o al folle di turno, di distruggere il mondo… Può darsi che tutti costoro si trovino ad affrontare dei “semplici” problemi. “Semplici”, fra virgolette ovviamente. Il punto è che, una volta trovato il tesoro o sconfitto il cattivo, il problema è risolto.


Eppure le storie basate sui problemi… presentano in realtà un problema: possono farci trascorrere il tempo in modo assai piacevole, ma, se necessitassimo di storie in grado di aiutarci ad aprire gli occhi su Grandi Verità o a curare le nostre ferite dell’anima, be’, non ne trarremmo grande giovamento. Perché, vedete, come diceva Albert Einstein: “Non si può risolvere un problema con lo stesso modo di pensare che ha generato quel problema.” Per fortuna, esiste un altro tipo di storie. Le riconosciamo perché ci sconvolgono dentro e perché siamo loro profondamente grati: ci siamo sentiti come se parlassero di noi e ci hanno rivelato importanti Verità, ci hanno mostrato la via della guarigione o ci hanno addirittura salvati. Sono quelle che hanno ereditato il potere che un tempo era riservato ai miti e successivamente alle fiabe. Quelle che, a mio parere, racchiudono il senso ultimo delle storie. Io le chiamo le Storie Kōan.


Una funzione della narrazione un tempo era riservata ai miti e, in seguito, all’universo delle fiabe e dei racconti di magia. Mi piace chiamare le storie che assolvono a questa funzione, storie Kōan, un termine che ho preso in prestito dalla filosofia orientale. Che cosa sono i kōan? I kōan sono indovinelli, affermazioni o racconti che hanno lo scopo di liberare l’ascoltatore dai preconcetti e di indurlo a riflettere sul livello della propria consapevolezza. In un famoso racconto kōan, un erudito si recò un giorno da un monaco per interrogarlo sullo Zen. L’erudito lo interrompeva spesso con frasi come: «Oh, questo lo so… Sì, sì, su quest’altro poi ho una mia teoria» eccetera. Alla fine, il Maestro Zen smise di parlare e iniziò a servire il tè all'erudito. Riempì la tazza finché questa non traboccò. «Basta!» sbottò l’erudito. «Non vede che è piena?» «È vero», rispose il Maestro Zen. «Se prima non svuoti la tua tazza, come puoi gustare il mio tè?» Nel caso di questo racconto, è abbastanza semplice comprenderne il senso. Come avrete intuito, ciò che probabilmente il maestro intendeva era: «Allo stesso modo di questa tazza, anche la tua mente è troppo piena di opinioni. Come posso spiegarti lo Zen, se prima non ti liberi delle idee preconcette?».


Ma, assai più spesso, la funzione dei kōan è proprio quella di non poter essere risolti con la logica. Per esempio: «Che suono ha il silenzio?» Oppure: «Qual è il suono di una mano sola che applaude?» O ancora: «Se lo ascolti con le orecchie non lo cogli, solo quando lo udrai con gli occhi, lo coglierai.» Ricordate le parole di Albert Einstein che vi ho citato poco fa? “Non si può risolvere un problema con lo stesso modo di pensare che ha generato quel problema.” In altre parole, se ascoltiamo solo ciò che la nostra mente ci dice, ascoltiamo solo ciò che abbiamo in mente. 6 Il regista Werner Herzog ha fatto una dichiarazione riferendosi al narrare per immagini, ma, a mio parere, il discorso può adattarsi perfettamente anche a chi si serve delle parole: «È attraverso l’invenzione, che si può giungere a certi momenti d’illuminazione. I fatti non costituiscono la verità: questa è sempre stata una mistificazione. Non esiste alcuna verità dei fatti. Più che fornire informazione, è importante provocare estasi e illuminazione». I problemi si risolvono, invece i dilemmi suscitati dalle storie kōan devono provocare in noi uno scarto, un mutamento nella percezione. Stiamo appunto parlando di illuminazione. Di trascendenza.


Consideriamo, per esempio, il film Arrival di Denis Villeneuve, tratto dal racconto Storia della tua vita di Ted Chiang. In 12 luoghi della terra arrivano altrettante astronavi. Restano sospese, in attesa. Già solo questo evento è di per sé un kōan: come reagiranno, infatti, le rispettive nazioni? Si predisporranno a un contatto pacifico o alla guerra? Scopriamo che gli alieni somigliano a delle seppie e, grazie a un'emissione di gas dalla base di uno degli arti, disegnano nell’aria dei simboli. Per decifrarli, gli eserciti di ognuna delle 12 nazioni assumono degli esperti. Gli americani incaricano la linguista Louise Banks e il fisico teorico Ian Donnelly. La storia diventa quindi una riflessione sulla difficoltà della comunicazione e su come si possa comprendere veramente l’altro solo se ci si predispone all’ascolto liberi da preconcetti.


Il film si richiama ad una teoria che riconosce una basilare dipendenza fra linguaggio e pensiero. Mi riferisco all’ipotesi di Sapir-Whorf, secondo cui la lingua che parliamo sarebbe determinante per il modo in cui pensiamo e vediamo il mondo. La lingua potrebbe infatti plasmare i nostri processi mentali, determinare o limitare le idee che potremmo avere e i pensieri che potremmo elaborare. Nel romanzo 1984 di George Orwell il Governo impone ai cittadini la neolingua che, non avendo in vocabolario termini come “rivoluzione”, non permetterebbe nemmeno agli individui che la utilizzano di poter concepire pensieri di ribellione.


Ed ecco dove il film Arrival ci permette di assistere a un kōan su scala internazionale: l'ambiguità nella traduzione diventa un problema drammatico quando, rispondendo alla domanda di Louise su quale siano le loro intenzioni, gli alieni comunicano simboli traducibili come "offrire arma", che vengono interpretati in modi diversi nei vari Paesi. La Cina, che ha scelto come linguaggio per comunicare con gli alieni il mahjong, ovvero un gioco in cui il vincitore prende tutto, interrompe le comunicazioni con gli altri Paesi, ritenendo il messaggio una minaccia, e si prepara ad attaccare; anche alcuni soldati statunitensi, a seguito delle crescenti paure alimentate dai media, decidono di installare una bomba all'interno dell’astronave. Intanto, il fisico si rende conto che l'insieme dei simboli che gli americani hanno ricevuto rappresenta in realtà solo una frazione del messaggio degli alieni: per completarlo e comprenderlo appieno, le nazioni dovrebbero dunque cooperare…


La storia ci invita a una messa in discussione di noi stessi, assistendo alla necessità di cambiamento di un’umanità che, prima di cercare di comprendere le intenzioni di creature provenienti dallo spazio, dovrebbe imparare a guardare dentro di sé per capire sé stessa: prima di pensare a comunicare col popolo alieno, le sue varie componenti dovranno imparare a collaborare. Stiamo parlando di risveglio alla consapevolezza, di TRASFORMAZIONE. In fondo, troviamo un kōan al centro di ogni buona storia, dall’autore per bambini Dr. Seuss a Tolstoj.


Un’altra cosa. Le storie kōan possono agire su due fronti: quello del fruitore della storia, ma anche quello del suo autore. Nel mio quarto romanzo, L’enigma di Gaia, i giovani protagonisti, la banda degli Invisibili, quando comprendono la natura del nemico da affrontare, si lasciano prendere dallo sconforto. Nelle avventure precedenti si erano “limitati” ad affrontare uno stregone, una strega, il rettore di un tenebroso collegio; antagonisti che, per quanto potenti, una volta sconfitti, non costituivano più un problema e il caso era risolto. Nell’Enigma di Gaia, l’antagonista è invece rappresentato da una misteriosa corporazione che controlla le riserve petrolifere dell’intero pianeta. È perciò in grado di ricattare ogni nazione che faccia uso del petrolio e, per concordare le proprie strategie, i suoi membri non si riuniscono nemmeno in qualche base segreta che un qualsiasi 007 potrebbe far saltare in aria; no, si incontrano in alberghi anonimi, in false convention di rappresentanti di commercio, in modo da non attirare alcun interesse; sono imbattibili, inafferrabili e adesso si stanno servendo di un esercito di mercenari per scacciare degli indios amazzonici dalle proprie terre, abbatterne gli alberi sacri per installare pozzi petroliferi. Come potrebbero fermarli degli adolescenti?


Il loro non è un problema, è un kōan. Io stesso, come autore, mi chiedevo: cosa possono fare i miei ragazzi contro un nemico invincibile? Dopo lunghe riflessioni, la soluzione mi apparve all’improvviso: il loro obiettivo non sarebbe stato sconfiggere le soldataglie della Corporazione (operazione poco credibile e, in fin dei conti, non risolutiva), ma allearsi con una squadra di cyberattivisti, i WebTV BoyZ. Con una colossale azione di hackeraggio, riescono a diffondere su ogni grande portale d’informazione i filmati di quanto sta accadendo, ma la loro azione nonviolenta avrà 8 successo solo se in tutto il mondo la gente scenderà nelle strade, in nome degli indios e della foresta. Ciò potrà accadere solo se l’umanità salirà un piccolo gradino nel livello della consapevolezza. Parliamo ancora di trascendenza. Una trascendenza che dovetti compiere innanzitutto io come autore, per escogitare questa soluzione nonviolenta, ma comunque spettacolare. In una scena, Invisibili e attivisti colombiani effettuano le riprese sospesi a mini mongolfiere fissate al busto, che permettono loro di “correre” sulla volta della foresta amazzonica, schivando pallottole ed elicotteri.


Come dicevamo, le buone storie non parlano di problemi. Le buone storie parlano di trasformazione. Perché, se come sostengono Gottschall e la moderna neuropsicologia, siamo programmati affinché ci immedesimiamo così tanto nei personaggi delle storie da finire con l’affrontare noi stessi le prove che loro cercheranno di superare, allora è questo lo scopo delle storie: illuminarci per farci trasformare e trascendere. Per renderci migliori o per farci guarire. Perciò, quando i nostri bambini cercano storie horror, non rifiliamo loro mostri buffi, graziosi o, peggio ancora, innocui. Perché il loro bisogno potrebbe dipendere dal fatto che, nella vita quotidiana, qualcosa li inquieta: leggendo o vedendo un horror sano (cioè quelli dove il Male viene sconfitto o almeno arginato), ne trarranno il coraggio necessario a fronteggiare la realtà. In altre parole, i nostri bambini si serviranno di quelle storie per compiere un processo di autoguarigione. E, forse, non è solo la paura ad attrarli. Forse, percepiscono semplicemente che nell’horror è presente in gran quantità un elemento che può attraversare tutti i generi: il mistero. Per quanto acerba, la coscienza di molti di noi è assetata di mistero perché sta compiendo un percorso di crescita personale e spirituale. Ma, come sempre, quando si parla di crescita, non si tratterà di un processo privo di fatica e non sarà indolore. Pensate a quanto coraggio occorra a mettersi in gioco e a essere disposti ad avventurarsi nel buio. Non saranno di certo le “storie innocue” a esserci d’aiuto in un cammino così impegnativo.


C’è un’ultima cosa che vorrei dirvi sulle storie kōan. Negli anni, ho maturato la sensazione che ognuno di noi, nel profondo, conosca bene la strada per il cammino verso ciò di cui ha bisogno. “Comprendere è ricordare”, diceva Platone. Chissà, forse appena nati ci era tutto chiaro, ma, crescendo, l’educazione impartitaci in famiglia, a scuola e le consuetudini della società, ci hanno reso il percorso più incerto e rischiamo spesso di perderci. Anche in questo caso, l’arte in generale, e le storie in particolare, possono aiutarci a ritrovare la strada, a fare risuonare quelle che percepiamo come le nostre Verità Profonde. Ho usato apposta il termine risuonare, perché sono convinto che la nostra consapevolezza funzioni come un diapason e che possano farla vibrare solo quelle Grandi Verità che percepisce come proprie. Se questo è vero, nessuna storia potrà mai insegnarci qualcosa che non sappiamo già. Ancora di più: nemmeno il più grande pensatore del mondo potrà mai rivelarci Verità che non siano già dentro di noi. Se non possediamo già quelle verità, la storia potrà anche avere colpito e conquistato un nostro amico, ma in noi non sortirà effetti altrettanto straordinari, semplicemente non riusciremo a capire perché il nostro amico sia stato così colpito.


Tutto ciò non sminuisce affatto il ruolo essenziale delle storie: servono a indicarci scorciatoie o perfino a ritrovare la strada, nel caso l’avessimo smarrita. Ma, attenzione, il percorso dovremo poi compierlo da soli. È proprio questa la funzione del mistero: fornirci piccoli indizi, indicarci come ritrovare la strada, per poi lasciarci proseguire da soli, come fanno i veri maestri. Solo così, coloro che fra noi saranno pronti potranno rappresentare quel cambiamento per il mondo che Gandhi ci invita a non esigere da altri se non da noi stessi. Le Storie di trasformazione sono quindi il dono più grande che possiamo fare… oppure ricevere. D’ora in avanti, se sentirai qualcuno sostenere che una canzone, un libro, un film… insomma, che una storia non possa cambiare il mondo, tu non gli credere. La risposta giusta è: dipende. Dipende da chi la ascolta. Sono Giovanni Del Ponte e vi do appuntamento a questo autunno e alla prima puntata di Animali narranti."





Giovanni Del Ponte, nato a Torino, è autore di romanzi per ragazzi e giovani adulti, fra cui la serie Gli Invisibili, vincitrice di diversi premi e pubblicata in 11 Paesi. Appassionato di fumetti e di cinema, dai 14 ai 30 anni si è cimentato nella regia per il cinema indipendente realizzando vari corto e mediometraggi, tra i quali "Futuro remoto". Ha pubblicato sei libri della serie Gli Invisibili (De Agostini Editore), il thriller fantascientifico Acqua tagliente (2008, De Agostini Editore) e il racconto “La leggenda della masca Ciattalina” nella raccolta “Tantestorie sul fiume” (2007, Ega Editore). È tra i soci fondatori della ICWA (Italian Children’s Writers Association).


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