Metti un giorno tiepido di inizio gennaio; metti un cielo azzurro smalto; metti un borgo senza tempo tra pietre, gatti e profumo di rosmarino. Ed ecco che sei a Verezzi. Con il mondo a pochi chilometri, eppure molto, molto lontano.
La strada per arrivare al piccolo borgo ligure di Verezzi è di quelle che dopo un paio di curve strettissime, a gomito, dove il doppio senso è più che altro un ironico vezzo, ti viene immediatamente il pensiero che in fondo avrebbe potuto essere bello anche visto da sotto. Ma poi, proprio perché capisci che il paradiso è una conquista per uomini di fede – e con auto di piccola taglia – affronti la salita impavido, sentendoti un piccolo Davide appiattito tra i muretti assolati ed enormi Suv-Golia che si impadroniscono dell’intera carreggiata.
A mano a mano che sali, la costa si disegna sempre più ampia e lo sguardo si allarga su Borgio che si allontana. Curva dopo curva, sono tante le villette che si affacciano sul mare, con piccoli giardini luminosi, patii, terrazze, la bougainvillae che si arrampica esuberante e seggioline in ferro battuto. La maggior parte sono in vendita, forse perché chi una volta veniva a trascorrere le ferie in Riviera ha lasciato in eredità tutto a nipoti che non hanno più interesse per questo tipo di vacanza o non possono più permettersi una casa di villeggiatura. Così le persiane sono tutte chiuse e i cancelli hanno al collo un cartello con scritto “Vendesi”.
Arrivati alle porte del borgo, il premio è immediato: lo splendore di una vista unica tra il mare e i monti che si toccano, come amanti chiusi in un abbraccio.
Luce, scintillii di ulivi e di onde lontane, orti che scendono, tra ordinati muretti e scoscesi passi. Una vegetazione che quasi contraddice il calendario, che vorrebbe morte le colture e dormiente la terra. Invece qui perfino i fiori irridono l’inverno.
Entrare nelle viuzze strette tra le case di Verezzi è come lasciarsi andare a un sogno senza tempo. Ogni pietra, ogni angolo, ogni fessura ha un respiro suo, una lingua propria che non puoi decifrare con l’occhio, lo puoi fare solo con la memoria. Una memoria che non è la tua ma che passa a te attraverso i racconti delle finestre, delle piante grasse cresciute in vecchie zuppiere, dei gatti-signori che ti sbarrano il passo e te lo concedono solo dopo una lauta adulazione. Scattiamo foto senza sosta , ingordi di trattenere tutto quel gioco di luci ed ombre e quasi facciamo a gomitate per quello scorcio suggestivo, quell'arco che si apre sul segreto di un orto, quella porticina socchiusa su un buio di cantina e di mistero.
Tra le creuze anguste che risalgono verso il centro appaiono piccoli presepi inusuali, preziosi o grezzi, di pietra di cava o di legno d’ulivo, miniature di natività o grandi statue di cartapesta che adornano il percorso con un tocco di sacralità, sfidata a duello dalla prosaicità degli audaci profumi di soffritto che si diffondono dai finestrini delle cucine. E così la via sfocia nella piazza Sant’Agostino, la meraviglia.
Chiusa ai tre lati dall’antica chiesa del XVII secolo e dalle vecchie case in pietra rosa, la piazzetta si apre sull'infinità dell’aria e sul mare in lontananza, come fosse un terrazzo naturale. Qui d’estate si celebra il teatro in un festival conosciutissimo che fa di questo spazio il proprio palcoscenico. E la cosa di certo non sorprende perché più che un paese Verezzi sembra davvero una straordinaria scenografia teatrale. La gente si sorprende con la bocca aperta per lo stupore a guardare un panorama che nelle giornate di cielo puro si dilata all'infinito, si siede sulle panche di pietra addossate ai muri per lasciarsi assaggiare dal sole, si beve due dita di Lumassina seduta al tavolino del bar godendosi il tempo proprio qui dove il tempo ha smesso di avere signoria.
Qualche arco di pietra, un portico coperto e il brusio della piazza soleggiata è già un sospiro indistinto. È il silenzio che ammorbidisce la luce del mezzogiorno, la diluisce tra fiori e piante grasse che trovano dimora in catini, pentole smaltate, caffettiere; la cattura dentro a piccole gabbie d’uccello, da dove fugge per poi riapparire in un gioco di riflessi impertinenti. Il pensiero va alle mani sapienti e creative che hanno pensato un oggetto nuovo, una vita alternativa a quella di un destino segnato per tante piccole cose, vecchie o rotte, ma ancora generose.
Ancora qualche muretto da dove sgorgano fiori, dove si aprono cancelletti di legno, spuntano i gialli dei limoni. Sospese come canne di un organo, decine di zucche stanno a seccare e si muovono ai refoli d’aria. Ancora odori di rosmarino, di timo, di lavanda.
La strada perde a poco a poco il lastrico di pietra, diventa sentiero, tracciato nell'erba e infine campagna d’ulivi.
È questo il momento di tornare indietro, per restituire la magia che abbiamo avuto in dono e lasciarla lì per coloro che verranno dopo di noi.
Anche se incolpevoli ladri, gli occhi, un po’ se ne portano via.
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